Dolore cronico: che significa? Nuovo articolo di Fondazione ISAL pubblicato sulla rivista Journal of Pain Research
Nell’ambito della ricerca scientifica, ci sono molte ragioni per usare il termine “dolore cronico” per raggruppare sindromi dolorose croniche differenti, soprattutto in campo epidemiologico. Le conseguenze sulla salute e le comorbilità del dolore cronico, infatti, dipendono spesso più dalla persistenza del dolore di per sé che dalla specifica diagnosi di dolore.
In ambito clinico, tuttavia, l’uso di questo termine può essere problematico, specialmente se usato per definire la condizione clinica del paziente. Il termine “dolore cronico” può essere difficile da afferrare, perché molte persone credono sia impossibile avere un dolore costante senza che questo sia dovuto a una patologia sottostante. Può inoltre generare confusione tra medici di diverse specialità (medici di famiglia, terapisti del dolore, ortopedici ecc.) o tra diversi operatori della salute (psicologi, fisioterapisti, infermieri ecc.), perché ognuno tende a vedere il dolore dalla prospettiva costruita lungo il proprio, specifico percorso di studi. Questo temine sembra essere piuttosto problematico in campo clinico e l’obiettivo del nostro articolo è proprio quello di analizzare le possibili insidie associate all’uso del termine “dolore cronico” in ambito clinico.
La nostra revisione della letteratura ha prodotto diversi risultati interessanti.
Il termine “dolore cronico” è nato negli anni Settanta, proprio agli albori della nascita della medicina del dolore. All’inizio questo termine indicava un tipo di dolore di lunga durata visto come un sintomo di un’altra malattia, oppure veniva usato per raggruppare malattie diverse ma con la medesima manifestazione clinica di dolore. Negli anni, tuttavia, è stato usato sempre più anche per definire un tipo di dolore che rappresenta una patologia a sé stante, quindi un dolore che non è più sintomo di altre patologie, ma che è esso stesso una malattia. Il termine “dolore cronico”, quindi, sembra evidenziare già una prima insidia: rappresentando allo stesso tempo sia un sintomo che una malattia, rischia di generare ambiguità e confusione.
Il termine “dolore cronico” presenta anche alcune inaccuratezze semantiche, specialmente se si considera il ruolo dell’aggettivo “cronico”. Questa parola deriva dal Greco “khronikos” e si riferisce al semplice passaggio del tempo. Tuttavia, il passare del tempo non è l’aspetto cruciale del dolore che persiste per più di 3 mesi, perché questo dolore è associato a caratteristiche alterazioni biologiche (ad esempio la sensibilizzazione centrale o altri cambiamenti a livello neuro-endocrino-immunitario) e può essere influenzato da numerosi elementi psicologici e sociali che contribuiscono al suo sviluppo, mantenimento e peggioramento. Inoltre, alcuni tipi di dolore (come il dolore dovuto a un infarto che coinvolge il sistema spinotalamico) sono cronici fin dal principio e non lo diventano col passare del tempo.
Il significato dell’aggettivo “cronico” è più chiaro quando viene usato vicino a termini che si riferiscono a processi patologici di specifici organi o funzioni, come la nefrite. Un altro esempio è la “Malattia Polmonare Ostruttiva Cronica”: qui l’aggettivo cronico ha un significato molto più chiaro, perché gli altri termini rimandano a un organo (il polmone) e a un processo patologico (ostruttivo) specifici. Il termine “dolore”, invece, non descrive nessun organo o sistema, né un processo patologico, ma si riferisce a ciò che comunemente viene visto come sintomo di un’altra patologia. Quindi aggiungendo l’aggettivo “cronico”, viene semplicemente descritta una qualità di tale sintomo, ovvero la sua persistenza nel tempo e la sua irreversibilità.
Il termine “dolore cronico” può mostrare insidie soprattutto in ambito clinico, poiché molti pazienti ritengono che il dolore non possa esistere senza una malattia che lo generi. Di conseguenza, la vaghezza del termine può generare incertezza, incomprensioni e ulteriori tentativi diagnostico-terapeutici. Il termine “dolore cronico” può essere percepito come una diagnosi posta quando la causa biologica del dolore non è stata identificata, o quando il dolore viene considerata “irreale”, portando così a frizioni nella relazione medico-paziente. Il dolore cronico non si adatta alla rappresentazione condivisa del concetto di dolore, visto come un sintomo transitorio di una sottostante malattia. Va inoltre considerato che anche quando il significato del termine “dolore cronico” sia ben compreso dai pazienti, esso può comunque continuare a trasmettere significati ambigui ai familiari, che di conseguenza possono continuare a stigmatizzare la condizione di salute del congiunto con dolore.
Inoltre, quando il termine “dolore cronico” viene usato come etichetta per indicare una condizione di dolore identificata come malattia a sé stante, può generare anche il rischio di ritardi diagnostici.
Altre insidie sono legate all’uso di questa parola con persone provenienti da culture diverse da quella occidentale o con credenze culturali specifiche. Ad esempio, secondo alcune culture il dolore cronico è dovuto a fattori metafisici o al karma, oppure certe persone possono ritenere che sia un normale correlato dell’età avanzata. Il termine “dolore cronico” può quindi avere effetti diversi in pazienti differenti influenzando la loro comprensione della condizione clinica e la ricerca di una cura.
Il termine “dolore cronico” ha certamente avuto un grande valore politico nel processo di legittimazione della medicina del dolore. Tuttavia, col progresso della ricerca scientifica, esso rischia di essere fuorviante, specialmente per i pazienti. Potrebbe essere quindi utile trovare un nome più significativo e accurato e la letteratura ha già proposto alcuni tentativi di ridefinizione. Richiamiamo l’attenzione dei clinici sulla necessità di evitare il più possibile una terminologia generica quando si parla coi pazienti e di prendersi il tempo necessario per comunicare loro adeguate e comprensibili informazioni sul dolore cronico e sull’approccio biopsicosociale alla sua gestione, al fine di promuovere un’alleanza terapeutica positiva e positivi risultati di salute. Richiamiamo anche l’attenzione sulla necessità di implementare attività formative per i clinici e di sensibilizzazione della società civile su questa tematica.
Ulteriori ricerche sui processi eziopatogenetici dei diversi stati di dolore cronico sono altresì necessarie, per individuare la terminologia più appropriata e per evitare che il termine “dolore cronico” sia adottato per esclusione.