Come descrivi il tuo dolore se non piangendo?
Racconti di Soglia – Narrazioni dal vissuto del dolore
(Nell’immagine un’opera di Eric Zeener)
Quando iniziamo a parlare Ivonne mi dice che la sua vita assomiglia quasi a un romanzo, che tante volte ha pensato di scriverla, e che probabilmente non riuscirà a raccontarmela come meriterebbe, ma ci prova. E’ davvero come un film che inizia questa storia. Ivonne è in auto, è un pomeriggio di fine estate del 2002… Era stata una giornata di mare, una regata di vela latina con gli amici sulle spiagge della Sardegna. Ha 50 anni, due figlie grandi all’università, un matrimonio finito e una nuova vita; è la pr di un grande albergo a Stintino. Si è concessa una giornata di libertà, sta tornando al tramonto sulle strade sarde. All’improvviso la macchina va fuori strada, sbanda, rotola in discesa su se stessa molte volte e finisce contro un palo. Ivonne ha avuto un colpo di sonno e ha perso il controllo dell’auto, viene sbalzata fuori dall’abitacolo, l’elisoccorso la porta in ospedale.
«Ho avuto un incidente stradale molto grave, lo racconto come me lo hanno raccontato, del mese dopo l’incidente non ricordo più nulla. Non avevo la cintura di sicurezza ma è stata la mia salvezza, avevo solo una ferità sulla fronte, ho rotto il vetro con la testa, sono uscita mentre la mia auto si accartocciava su se stessa. Ho subito però la rottura dell’atlante, non era operabile e avrei potuto restare invalida in un letto, la scapola scomposta, varie altre fratture alla cassa toracica e al bacino, e un trauma cranico molto forte. Sui giornali locali della mia città avevamo scritto che non sarei arrivata al giorno dopo. Invece sono stata ricoverata in Sardegna, e poi sono tornata nella mia Cesena, dove sono stata ancora un mese in ospedale. Non ero in coma, eppure di quel mese non ricordo assolutamente nulla, mi raccontano che ero fuori di me, che parlavo ma non ne ero consapevole. Per la rottura dell’atlante ho portato il Philadelfia per tre mesi senza mai poterlo togliere, doveva saldare bene. Mi è servito un anno di riabilitazione per tornare alla vita normale.
Un anno dopo sono tornata in Sardegna, ho passato là la convalescenza e il clima del sud mi ha fatto bene. Ma quando sono tornata a Cesena, con il diverso clima, ho iniziato a provare moltissimo dolore. Dall’esterno sembravo guarita, ma in profondità le mie ossa erano piene di microfratture. Quando mi hanno fatto la risonanza magnetica mi hanno detto, dentro sembri un cimitero, in profondità sei tutta una frattura»
Lo scheletro di Ivonne nelle radiografie è una metafora del dolore cronico, l’esterno delle sue ossa è intatto, ma le fratture sono al centro, in fondo, e non basta un gesso a rimarginarle in poco tempo.
«Era un dolore che non mi dava pace. Iniziai a prendere degli anti infiammatori molto forti, mi facevo delle iniezioni da sola, spesso di notte andavo al pronto soccorso. Io sono una che sopporta bene il dolore, ma non ce la facevo più, perché gli anti infiammatori mi procuravano delle emorragie e non mi facevano quasi più nulla. Ho sentito parlare della terapia del dolore, ho cercato tutto quello che trovavo sul web, ho telefonato all’ospedale di Bergamo. Mi hanno chiesto in quale città vivessi e mi hanno detto: il nostro maestro è di Rimini.»
Quando inizia a parlare del dottor Raffaeli la voce di Ivonne cambia, si sente che sta parlando mentre sorride.
«Ho incontrato il dottor Raffaeli e mi ha subito ricoverata per alcuni giorni. Quando ti chiedono di fare una valutazione da uno a dieci del tuo dolore, fai fatica a misurarlo; io non sapevo misurare il mio dolore, mi facevo portare in ospedale quando era così forte da non riuscire a muovermi, ma non ero capace di identificarlo con un numero. In quei giorni di ricovero nel reparto del dottor Raffaeli ho imparato a misurare il mio dolore guardando le persone che erano ricoverate accanto a me. Dicevano il mio dolore è 9, è 10, eppure vedevo che si muovevano meglio di me. Pian piano guardandomi attorno e vedendo le altre persone, mi sono resa conto di quanto potesse essere il mio dolore. Abbiamo cercato il farmaco giusto, prendo un oppioide. I primi giorni è stato un po’ difficile, il mio corpo doveva accettare il farmaco e il dosaggio giusto, ma poi questo farmaco mi ha permesso di stare meglio, mi copre quasi tutta la giornata e non mi dà effetti collaterali. Il professor Raffaeli mi ha fatto anche dei piccoli interventi con il laser al collo, e questo per me è stato importantissimo, mi ha permesso di riprendere a guidare.
Nonostante il mio dolore fosse soprattutto concentrato nella parte alta del corpo, la mia postura era così sbagliata che mi portava a zoppicare, è stato necessario che mi operassi all’anca. Non posso fare esattamente la vita di prima, ma sono più tranquilla. Non riesco a raccontare bene il mio dolore, a rappresentarlo, e forse ho anche cercato di dimenticarlo, come ho voluto dimenticare quell’incidente che mi ha posto tanti limiti. Quando stai un po’ meglio dimentichi anche il dolore.»
Quello che pesa a Ivonne del suo dolore non è la perdita di una libertà, perché lei ha scelto di non rinunciarci. A Ivonne non manca la possibilità di viaggiare, perché ha deciso di farlo comunque, ciò che le pesa è il momento in cui il dolore la pone di fronte a un limite, come il gesto banale di sollevare da sola la sua valigia. «Io sono sempre stata una persona forte, e se ogni tanto mi metto a piangere è solo perché non posso fare proprio tutto come prima. Cammino bene, faccio molte cose, ma prima viaggiavo anche da sola, portando bagagli pesanti, oggi non potrei più farlo»
Il dolore non è capito, mi dice Ivonne.
«Fisicamente sembra che io non abbia avuto assolutamente nulla, Ivonne è guarita dice la gente… Perfino mia figlia o mia madre pensavano che fosse un dolore psicologico. Così sono sempre stata zitta, mi chiudevo in casa, andavo alle terme, chiamavo piuttosto il dottore per confrontarmi sul mio medicinale. E’ difficile descrivere il dolore alle persone, non riuscivo a descriverlo neppure al medico. Come descrivi il tuo dolore se non piangendo? Ma le persone poi pensano che tu sia depressa.»
Chiedo a Ivonne quale sia la cosa che le manca di più
«Non poter tenere in braccio i miei nipotini, ed abbandonare per sempre il mio sogno di lavoro. Volevo aprire un Agriturismo in Sardegna, era già tutto programmato. Ero una persona molto indipendente, pensare di non poterlo essere completamente è la cosa per me più difficile»
E qual è la cosa che la terapia del dolore le ha restituito?
«Prima sorridevo poco e non avevo più tanta voglia di vivere, grazie alla terapia del dolore ho riacquistato la voglia di vivere e il mio sorriso che non mi manca mai»