Il dolore che fa male da impazzire. Una vita salvata da un incontro
Per la nostra rubrica “Racconti di Soglia – Narrazioni dal vissuto del dolore” oggi raccontiamo la storia di Rita.
(nella foto un’opera di Vladimir Pajevic)
Fa male da impazzire, fa male da morire: non sono solamente modi di dire. La storia di Rita è una storia del limite, dove il dolore che fa impazzire diventa letterale e terribile. Per gli antichi greci l’impazzire è l’anima che esce dai bordi, così il dolore che attraversa la sua soglia tocca un limite in cui perfino l’identità si perde, esce dai bordi della propria vita. Rita ci racconta questo punto di confine con il buio, e come grazie a ISAL sia tornata alla vita, portando con forza e speranza la croce che ha scoperto di poter portare.
Tutto inizia ormai più di dieci anni fa, Rita è una madre giovane e attiva, i suoi figli sono adolescenti, lei è la responsabile della santificazione di un centro cottura, ha poco più di 30 anni: «Mi alzavo presto, portavo i ragazzi a scuola, al lavoro coordinavo diverse persone; avevo grinta e voglia di vivere, ero sempre impegnata a organizzare tutto. Mi piacevano il mio lavoro e la mia vita, nel week end uscivamo, andavamo a ballare, qualche volta uscivo perfino con i miei figli e i loro amici: li seguivo senza farmi vedere e alla fine bevevamo una birretta insieme.»
Per un’ernia del disco Rita si sottopone ad un intervento chirurgico di routine, ma qualcosa va storto, per risolvere il problema inizia una catena di altri interventi, fino ad arrivare ad una ricostruzione vertebrale. Da questo momento il dolore cronico entra nella sua vita, perde l’uso della gamba destra: «L’ho recuperato solo dopo due anni, con una lunga riabilitazione. I dolori erano così atroci che non riuscivo più a capire chi ero, cosa volevo, perché ero in questo mondo e perché dovessi restarci se riuscivo solo ad essere un peso per le persone che amavo. Ti ritrovi in un corpo che non è più il tuo, non riesci a fare le cose più semplici: lavorare, accudire i figli, pulire casa; non riesci neanche ad accudire la tua persona e ti chiedi come sia possibile che una cosa del genere sia capitata proprio a te. Non riesci a darti delle risposte. Spesso anche le persone più vicine non riescono a capire quanto sia intenso questo dolore e fino a che punto ti possa portare: è un dolore impossibile da spiegare agli altri, non puoi paragonarlo a un mal di testa o a un taglio al dito, è un dolore atroce che ti prende tutto. Sono stata ricoverata anche in psichiatria, ho tentato più volte di farmi del male. Ho cercato tanto di lottare ma è un dolore che ti prende dentro. In quel periodo, anche quando mi chiedevano semplicemente come stai, iniziavo a piangere. Ammetto che ancora oggi mi sento come uscita da un campo di concentramento, massacrata, con un corpo devastato da un dolore senza uscita. Prima io mi consideravo in cavallo da corsa, sempre pronto a lottare per vincere, adesso sono un agnellino, l’emblema della creatura indifesa.»
Rita ci fa cogliere un punto fondamentale: la rabbia. Ancor prima che la disperazione, la rabbia è ciò che contraddistingue il dolore cronico. «Ti prende un nervoso isterico, stai arrabbiata con te stessa e ti arrabbi continuamente con gli altri, perché non capiscono quanto il dolore possa logorarti dentro. Sono allergica a molti farmaci perciò la morfina era l’unica cosa che potessero darmi, ma la morfina a lungo andare ti compromette la mente, ti fa dimenticare le cose: vivo in corsa contro la memoria che si perde, con la rabbia di dimenticare anche le cose più banali, un semplice appuntamento.»
Dopo cinque anni di questa sofferenza, quando il ricordo è già annebbiato dalla voglia di smettere di vivere, Rita incontra ISAL: «Il mio medico mi ha detto che a Rimini c’era un dottore bravissimo e mi ha indirizzato alla terapia antalgica, così ho incontrato il professor William Raffaeli, che appena mi ha vista ha capito. Iniziò a farmi dei test, doveva capire se il mio dolore era immaginario o reale. Mi iniettava dei liquidi nella schiena e mi chiedeva se il dolore diminuisse, io rispondevo di no. Stava facendo delle infiltrazioni placebo, si rese conto che il mio dolore era fisico e reale. Finalmente mi sono sentita compresa e accolta, finalmente qualcuno ascoltava il mio grido. Mi sono affidata completamente a lui ed ho trovato una persona degna del lavoro che fa, perché mi ha aiutato in tutto e per tutto, non solo con i test o i farmaci ma anche a livello morale e psicologico. Ha capito che avevo bisogno di sfogarmi e di parlare, mi ha indirizzato ad uno psicologo che faceva parte dell’equipe, si confrontavano, cercavano di comprendere se fosse la mia mente ad aumentare il dolore o se il dolore mi creasse questi danni mentali, ed hanno capito che era effettivamente così: il mio dolore è vero.
Da allora abbiamo fatto tanti tentativi, ho seguito il professor Raffaeli a Parma, a Milano, a Fermo, dovunque andasse la sua equipe andavo io. Quando entravo in sala operatoria ero spaventata, ma mi davano sempre il sostegno di cui una persona come me ha bisogno. Non tutti possono capire, quando ti chiedono quant’è il dolore da uno a dieci e tu rispondi 11 le persone non capiscono»
Seguita dal professor Raffaeli Rita inizia un’iter psichico e fisico, per due anni riesce a trovare uno spiraglio di luce.
«Il professore mi ha aiutato in tutti i modi: non è stato possibile impiantarmi sacche di farmaci direttamente nel midollo, perché sono allergica alle medicine, così abbiamo messo un elettrostimolatore midollare e per due anni ha funzionato perfettamente, poi purtroppo si è spostato, hanno dovuto togliermelo, abbiamo tentato ancora ma non siamo più riusciti ad ottenere risultati. Almeno per due anni sono riuscita a dire ‘finalmente sto meglio’, mi accontentavo di questo: non di stare bene ma di stare meglio. Continuerò eternamente a ringraziare il professore e la sua equipe per questo e per tutto quello che hanno fatto e tentato per me.»
Chiedo a Rita se nel percorso intrapreso con lo psicologo ISAL abbia trovato qualche consapevolezza nuova
«L’esperienza più bella per me sono state le sedute collettive, in cui ho incontrato altre persone che come me vivevano con il dolore, anche in condizioni più difficili delle mie. Mi sono accorta che seppure convivessi con un diavolo nel corpo e nella mente, per lo meno potevo ancora camminare, mentre molti di loro erano costretti su una sedia a rotelle o combattevano con la morte. Mi sono sentita così piccola ad aver cercato di morire mentre persone con il mio stesso male lottavano per vivere. Ho riscoperto la fede e mi sono sentita fortunata per la mia indipendenza. Guardando la sofferenza degli altri mi sono sentita compresa, sono riuscita perfino ad aiutarli, e mi sono sentita meno sola. In quegli attimi di terapia di gruppo mi splendeva il sole»
Sento accanto a Rita la voce di un bambino, le chiedo della sua famiglia e di questa presenza allegra che accompagna il suo racconto
«Mi sono aggrappata ai miei tre nipotini, loro sono la mia gioia di vivere e la forza per andare avanti e lottare. Quello che passa più tempo con me, pur avendo solo tre anni, sembra capire perfettamente quando sto male: si stende buono buono accanto a me. Il dolore non diminuisce ma cerco di vivere e di non far pesare agli altri la mia situazione, di accettare il fatto di avere bisogno di aiuto, una cosa che prima rifiutavo.» Mi racconta che non è stato facile mantenere la famiglia unita: il dolore è destabilizzante, ci sono state litigate, crisi, sensi di colpa, ma questa famiglia ha avuto il dono di sapersi perdonare ed è rimasta insieme.
«Nonostante quello che abbiamo passato e continuiamo ad affrontare voglio dire a chi soffre di dolore cronico di non mollare, di cercare persone competenti a cui affidarsi. Se hai le persone giuste vicino riesci a riemergere e ritrovare te stessa nonostante ciò che il tuo fisico non ti da: lo trovi oltre il tuo fisico, anche solo nelle parole.»
Faccio notare a Rita che per la sua situazione psichica viene seguita dalla mutua, mentre per il dolore cronico deve ricorrere a visite specialistiche a pagamento, un paradosso per cui la sua storia diviene emblematica: Rita ci dimostra che davvero la terapia del dolore può salvare una vita.
«Ci tengo a raccontare un fatto recente: in Sicilia un uomo che soffriva del mio stesso dolore alla schiena si è sentito abbandonato e ha posto fine alla sua vita lasciandosi cadere dal balcone. Io capisco quello che ha fatto, perché lo volevo fare anche io. Ma se avesse incontrato una realtà come ISAL e un reparto di terapia del dolore probabilmente non lo avrebbe fatto.»
Rita guarda al futuro, qualche volta sua madre le dice che in lei c’è ancora quel cavallo da corsa, che non è detto che un giorno non possa tornare a correre. E anche lei nel profondo ci spera.