“Ognuno di noi ha un motore dentro” Intervista al grande Adorni
Racconti di Soglia – SPECIALE GIRO D’ITALIA
ISAL è tra le Onlus scelte per accompagnare la carovana del Giro d’Italia, attraverseremo tutta la penisola dalla Sardegna fino alle Dolomiti, con un auto che informerà le persone sul nostro impegno nella ricerca e sull’opera concreta al fianco dei pazienti.
Un’intuizione che dobbiamo al nostro ambasciatore Vittorio Adorni: non solo un campione, parte di un’epoca in cui lo sport poteva incarnare l’eroismo e portare con se la voglia di riscatto di un’intera nazione, ma anche un grande comunicatore, il primo sportivo ad entrare con il suo volto e la sua voce nelle case degli italiani attraverso la Tv.
In una lunga intervista il grande ciclista ci racconta la sua storia e le sue imprese, facendoci vivere da vicino il modo in cui gli atleti fronteggiano il dolore e lo trasformano in una vittoria. Adorni ci racconta anche come il Giro d’Italia sia un’occasione unica, una enorme festa che tocca anche il più piccolo paese e un fatto culturale che racconta la nostra storia in modo sano e antico. Gli sportivi come Adorni non sono star ma eroi, i giganti del pedale come lui portano in vetta un Paese intero.
Come è avvenuto l’incontro con ISAL e perché ha scelto di essere al nostro fianco nella battaglia contro il dolore cronico?
«Sono sempre le casualità che fanno incontrare le persone: c’era la pedalata Biciclette contro il Dolore vicino a Parma, a Calestano, là ho conosciuto tante persone che lavorano in ambito farmaceutico e il dottor William Raffaeli. Quando mi hanno chiesto di essere ambasciatore ISAL ho detto sì senza pensarci due volte, perché credo che la terapia del dolore sia benefica per tantissima gente. Mi affascina che si possa intervenire sul dolore specifico e non semplicemente con un antidolorifico generale.»
Può raccontarci qualcosa dell’evento Biciclette contro il dolore che ha vissuto e condiviso?
«Si tiene in una zona molto fuori dal traffico, a una trentina di km da Parma. Abbiamo scelto due percorsi che passano da Verceto e scendono dalla parte opposta verso Calestano. Hanno sempre aderito tutti, anzi aumentiamo tutti gli anni; quando è bel tempo si mangia all’aperto tutti insieme, una cosa stupenda. Dopo aver lavorato un anno in giro per l’Italia ci si riunisce tutti, è il ritrovo di tanti giorni e tanti mesi.
In questa occasione ci sono medici, pazienti, persone che lavorano nel mondo della cura, ci si raccontano tante cose. Io credo che la terapia del dolore non sia conosciuta da tutti in Italia, il lavoro che voi fate è importantissimo e la televisione dovrebbe darvi più risalto. Non so quante città in Italia abbiano un reparto dedicato alla terapia del dolore. E invece il dolore va finalmente curato in modo specifico.»
Un atleta che si misura continuamente con il suo corpo ha più chiara questa consapevolezza, non è un caso che quasi tutti i testimonial di ISAL siano come lei dei grandi sportivi. Può raccontarci come il dolore entra a far parte dello sport e come lo si affronta?
«Stando per ore in bicicletta può capitare che arrivi un dolore al braccio o a una spalla, ti chiedi perché hai questo dolore, magari è solo perché non hai bevuto a sufficienza… E’ una cosa che col tempo ogni atleta sa: impara a conoscere il suo corpo, e deve essere curato per il dolore specifico che prova. Quelli che come me hanno fatto sport sanno bene che la terapia contro il dolore va praticata da uno specialista, che sappia esattamente come fare.»
Lei è un campione del mondo, in una dimensione così eccezionale di impresa sportiva c’è anche una grande capacita di sopportare il dolore. Vorrei che mi raccontasse qualche aneddoto in cui ha combattuto il dolore in prima persona.
«All’inizio della mia carriera non avevo esperienza, ho cominciato a correre tardi, ho iniziato ad andare in bicicletta a diciotto anni e sono diventato professionista quasi a 22; le crisi di fame mi mandavano in tilt come una macchina che si ferma, ho perso molte corse per questo motivo. Una cosa molto difficile da superare per i ciclisti è il freddo: negli anni ’60 non avevamo i materiali di oggi, c’era solo la maglia di lana; mettevi un impermeabilino di nylon, ma il freddo ti prendeva le mani e i piedi, mentre pedalavi diventavano pezzi di ghiaccio. E’ capitato che nevicasse anche a Maggio durante il Giro d’Italia, ci vuole molta volontà per superare le crisi di freddo, molti corridori ai miei tempi si fermavano per questo. Anche il caldo non è bello, quando fanno quaranta gradi e i corridori stanno sotto il sole.
Ognuno di noi ha dentro un motore che deve conoscere per sapere cosa fare. Io ho avuto la fortuna di vincere delle belle corse e anche il mondiale, al campionato del mondo di Imola sono andato in fuga con altri sei temerari, mancavano 230 km all’arrivo. A 90 km dall’arrivo ho cominciato a sentire che non ero più quello di prima, mi sono trovato ad affrontare 90 km di dolore. Ad ogni giro, ogni salita, un mal di gambe che non passava mai. Però sono arrivato al traguardo all’autodromo con 9 minuti e 50 secondi di vantaggio sul secondo, è stata un’impresa incredibile, quasi irripetibile perché non lo ha mai fatto nessuno. Anche quando si è in forma i dolori bisogna superarli, ognuno di noi ha la testa per capire qual è il suo motore. Non è facile farlo, per questo la presenza di centri di terapia del dolore negli ospedali è una cosa eccezionale.»
Come ha fatto lei in quei 90 km di dolore, che poi sono diventati 90 km di vittoria?
«90 km sono tanti in fuga da solo, soprattutto dopo averne fatti altri 140: uno non sa come passare il tempo… C’era un caldo all’autodromo! Quando facevo la salita guardavo la gente a destra e a sinistra, riuscivo a capire che quello a sinistra con la camicia bianca lo avevo già visto a destra 200 metri prima, praticamente ho focalizzato tutti gli spettatori; ho passato il tempo. Mentre pedalavo pensavo a tante cose, guardavo la gente che urlava e che mi incitava e non pensavo più al dolore. Sono riuscito ad arrivare al traguardo, per un atleta è una delle cose più belle della vita vincere un mondiale, tutto il mondo ti corre contro e riesci a vincere. Ero già arrivato secondo ad un campionato del mondo nel 64, avevo perso in volata, c’era un olandese più veloce di me… Quella sconfitta ce l’avevo ancora sullo stomaco.»
Mercoledì prossimo la seconda parte dell’intervista a Vittorio Adorni