Che cosa è il dolore cronico
Il dolore cronico è una delle problematiche di salute pubblica ad oggi più rilevanti, sia in Italia che nel resto del mondo, sia per la sua ampia diffusione nella popolazione generale sia l’impatto che ha sulla salute di chi ne è affetto e sulla società nel suo complesso.
Per comprendere appieno questo fenomeno, è necessario comprendere anzitutto cosa sia il dolore.
Dolore acuto e dolore cronico: le differenze principali
Il dolore è una delle esperienze più comuni nella pratica clinica e rappresenta un campanello d’allarme fondamentale per il corpo: segnala la presenza di una lesione o di una malattia e guida le scelte diagnostiche e terapeutiche. L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (International Association for the Study of Pain, IASP) nel 2020 ha definito il dolore nel modo seguente:
Il dolore è una spiacevole esperienza sensoriale ed emozionale associata a, o che assomiglia a quella associata a, un danno tissutale attuale o potenziale.
Il fatto che dopo oltre 40 anni, la definizione di dolore inizialmente operata nel 1979 sia stata revisionata, ben suggerisce la complessità di questo fenomeno. Dalla definizione appare evidente che il dolore sia sempre un’esperienza personale; ogni individuo ne apprende il significato per mezzo delle proprie esperienze correlate a lesioni o malattie durante i primi anni di vita. Essendo un’esperienza “spiacevole”, il dolore non è solo un fenomeno sensoriale, bensì il risultato della sommatoria di una componente percettiva (la nocicezione) che costituisce la modalità sensoriale che permette la ricezione ed il trasporto al sistema nervoso centrale (midollo spinale e cervello) di stimoli potenzialmente lesivi per l’organismo, e di una componente emozioanle (del tutto personale) rappresentata dallo stato psichico collegato ad una sensazione spiacevole (per approfondire la definizione di dolore e la sua revisione consultare questo articolo dedicato).
Il dolore è quindi un fenomeno estremamente complesso. Per comprenderlo ancora meglio, è ora importante distinguere tra dolore acuto e dolore cronico.
- Il dolore acuto si manifesta come risposta immediata a un danno tissutale, ad esempio a seguito di un trauma, un intervento chirurgico o un’infezione. E’ un segnale di allarme con una funzione protettiva: induce a limitare i movimenti o comportamenti che potrebbero aggravare la lesione, favorendo così la guarigione. In genere, la sua durata è breve e si risolve con la riparazione del tessuto o la cura della causa sottostante.
- Il dolore cronico, invece, è un dolore che persiste oltre i tre mesi e perde la sua funzione adattativa. Può originare da lesioni non completamente guarite, come danni nervosi spinali o midollari, oppure continuare a essere percepito anche dopo la risoluzione del danno iniziale, come nel caso di lombalgia persistente successiva a un episodio acuto. In questi casi, complesse modificazioni a livello del sistema nervoso centrale e periferico provocano sensibilizzazione e amplificazione della percezione dolorosa, insieme a possibili altre concause biologiche e psicosociali, trasformando il dolore in una condizione autonoma che influisce profondamente sulla vita quotidiana.
Una volta distinto il dolore in acuto e cronico è importante specificare che il dolore può anche essere definito diversamente in base all’origine, che può riflettere meccanismi fisiopatologici distinti. Comprenderli è fondamentale per scegliere il trattamento più adeguato.
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Dolore nocicettivo: è generato dall’attivazione dei nocicettori, ovvero le terminazioni nervose specializzate nel rilevare stimoli potenzialmente dannosi — come calore, pressione o infiammazione — a livello di tessuti muscolari, articolari o viscerali. Si manifesta ad esempio in presenza di una lesione o infiammazione dei tessuti e rappresenta un segnale di allarme per proteggere l’organismo.
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Dolore neuropatico: deriva da una lesione o disfunzione del sistema nervoso, centrale (cervello o midollo spinale) o periferico (nervi). Può comparire, ad esempio, dopo un’ernia del disco, un ictus, una neuropatia diabetica o una lesione midollare. È spesso descritto come bruciore, scossa elettrica o formicolio, e tende a essere più difficile da trattare con i comuni analgesici.
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Dolore nociplastico: si verifica quando, pur in assenza di un danno tissutale o nervoso evidente, il sistema nervoso elabora in modo anomalo i segnali dolorosi, amplificandoli. È il caso di condizioni come la fibromialgia o alcune forme di mal di schiena cronico. In questi casi, il dolore diventa una malattia del sistema di percezione stesso.
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Dolore misto: è la forma più frequente nella pratica clinica e combina meccanismi nocicettivi, neuropatici e/o nociplastici. È tipico, ad esempio, del dolore oncologico o del dolore cronico post-chirurgico, dove componenti diverse si intrecciano e richiedono un approccio terapeutico integrato.
Riconoscere il tipo di dolore è essenziale per impostare un percorso terapeutico personalizzato. Essendo completamente diverse le cause, è facilmente comprensibile come le terapie possano e debbano essere diverse al fine di risultare efficaci. Lo stato di perdurante sofferenza nel tempo di quanti soffrono di dolore cronico dipende spesso da una diagnosi non corretta del problema presente e dalla somministrazione di una cura inadeguata.
Classificazione del dolore cronico
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’Undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Diseases-11, ICD-11) ha riconosciuto il dolore cronico non solo come sintomo, ma come patologia a sé stante, distinguendo due principali categorie:
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Dolore cronico primario: dolore persistente o ricorrente da oltre tre mesi, associato a significativo disagio emotivo e limitazioni funzionali, senza una causa medica chiara. Include condizioni come fibromialgia, emicrania cronica e alcuni mal di schiena.
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Dolore cronico secondario: dolore legato a una condizione patologica identificabile, come dolore oncologico, post-traumatico, post-chirurgico o associato a malattie muscoloscheletriche e neuropatiche.
Questa classificazione riconosce per la prima volta il dolore cronico come patolgia, non solo restituendo dignità a questa problematica, ma facilita anche diagnosi più accurate, promuove interventi multidisciplinari e orienta politiche sanitarie mirate.
Prevalenza e impatto del dolore cronico
Il dolore cronico è una condizione molto diffusa e rappresenta una vera emergenza di salute pubblica. Secondo gli ultimi dati del Rapporto del Consiglio dell’U.E. sulle malattie croniche e sul ruolo del dolore, in Europa la prevalenza del dolore cronico è compresa tra il 16% e il 46%; ciò significa che circa 80 milioni di europei sono affetti da dolore cronico moderato-grave. Secondo i dati della European Health Interview Survey (EHIS) del 2019, analizzati in Italia da ISTAT, Istituto Superiore di Sanità e Fondazione ISAL, il 24% della popolazione adulta italiana (18 anni e più) soffre di dolore cronico in una o più parti del corpo da oltre tre mesi. Si tratta di circa 10,5 milioni di persone, di cui 4 milioni uomini e 6,5 milioni donne. Circa il 52% delle persone colpite attribuisce il dolore a una malattia con diagnosi certa, mentre il 13% non ha ancora ricevuto una diagnosi chiara. La diffusione del dolore cronico è piuttosto omogenea sul territorio nazionale, anche se nel Mezzogiorno (Sud e Isole) sembra più diffuso fra gli anziani. In media, le persone colpite da dolore cronico vivono in uno stato di sofferenza continua per almeno 7 anni, ma per quasi un quinto di loro questo periodo si estende ad oltre 20 anni (trovate maggiori informazioni sull’indagine EHIS in questo articolo a cura di Fondazione ISAL e in questo articolo a cura dell’Istituto Superiore di Sanità).
Il dolore cronico è spesso anche associato a patologie tumorali. I dati tratti dall’indagine EHIS, al riguardo indicano che circa lo 0,7% della popolazione adulta italiana (307.000 persone) soffre di dolore cronico insorto a seguito del cancro. Per maggiori approfodnimenti su questo tema si rimanda all’articolo dedicato sul nostro sito.
Recenti indagini hanno rilevato, inoltre, che le persone con dolore cronico vagano nel labirinto della sanità, pubblica e privata, per una media di 4,5 anni prima di arrivare a un centro specialistico di terapia del dolore. Il 21,2% dei pazienti non sa a chi rivolgersi; è disorientato nel sistema delle cure e addirittura non è a conoscenza dell’esistenza di un Centro per il trattamento del dolore (7,1%). Dagli stessi dati si può osservare che il lungo tempo di malattia li ha indotti a consultare numerosi specialisti, a subire parecchi interventi, a tentare la cura con svariati farmaci, provando i più diversi effetti indesiderati e complicanze aggravanti. Questa continua ricerca di una cura genera un profondo stato di malessere e ha anche un costo per la persona: circa 750 euro annui, una spesa che non garantisce sempre il beneficio delle cure e che, alla luce delle odierne difficoltà economiche, determina anche un forte disagio sociale.
Non a caso, il dolore cronico è una delle principali cause di anni vissuti in disabilità e ha un impatto significativo sulla salute fisica, psicologica e sociale. Dal punto di vista fisico, limita le attività quotidiane e le capacità funzionali. Dal punto di vista psicologico, aumenta il rischio di disturbi dell’umore, ansia, depressione e problemi del sonno. Socialmente, influisce sulle relazioni familiari, sulla partecipazione al lavoro e alle attività comunitarie. I costi economici sono elevati, comprendendo sia spese sanitarie dirette sia indirette, come giornate lavorative perse o ridotta produttività, con un impatto stimato fino al 2-3% del PIL nei Paesi industrializzati. In Italia, il dolore cronico ha un peso anche sull’economia nazionale: il costo sociale medio annuo per ogni paziente è di almeno 4.557 €, di cui 1.400 € per i costi diretti a carico del Sistema Sanitario Nazionale (farmaci, ricoveri, diagnostica) e 3.156 € per costi indiretti (giornate lavorative perse, distacchi definitivi dal lavoro etc.).
L’approccio biopsicosociale al dolore cronico
Il dolore cronico non è soltanto un fenomeno fisico, ma una condizione complessa che coinvolge la persona nella sua globalità. Il suo impatto si estende alle dimensioni fisica, psicologica e sociale, ma al tempo stesso questi stessi fattori possono influenzare l’intensità e la persistenza del dolore, determinando quanto esso limiti la vita quotidiana.
I fattori fisici, come l’infiammazione, il danno nervoso o le alterazioni nella modulazione del segnale doloroso, rappresentano le basi biologiche del dolore. Tuttavia, la componente psicologica svolge un ruolo fondamentale: emozioni come ansia, paura o depressione possono amplificare la percezione del dolore, mentre strategie di coping efficaci, il supporto emotivo e la fiducia nel trattamento possono ridurla. Anche la dimensione sociale incide in modo significativo: l’isolamento, le difficoltà economiche o la mancanza di sostegno familiare possono aumentare la disabilità associata al dolore, mentre relazioni di cura positive, un contesto lavorativo comprensivo e l’accesso a risorse sanitarie adeguate favoriscono il recupero e l’adattamento.
Per questo motivo, la gestione del dolore cronico richiede un approccio integrato e multidisciplinare, che unisca interventi medici e farmacologici con strategie psicologiche, fisioterapiche, educative e sociali. L’obiettivo non è solo ridurre il dolore, ma migliorare la qualità della vita, restituendo alla persona un senso di controllo, autonomia e partecipazione attiva.
La legge 38/2010 in Italia
In Italia, il legislatore ha riconosciuto l’importanza di una presa in carico appropriata del dolore attraverso la Legge 38 del 15 marzo 2010, intitolata “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Questa legge sancisce il diritto dei cittadini alla diagnosi e al trattamento del dolore, prevedendo percorsi integrati e multidisciplinari e promuovendo l’uso appropriato delle terapie farmacologiche e non farmacologiche.
Un aspetto centrale della Legge 38 è la rete dei centri di terapia del dolore, strutturata su tutto il territorio nazionale per garantire l’accesso a cure specialistiche, con personale formato e percorsi standardizzati. Sul sito di Fondazione ISAL è possibile consultare l’elenco dei centri di terapia del dolore del Sistema Sanitario Nazionale. Trova il centro di terapia del dolore più vicino a te.

Nel mondo il mal di testa (cefalea) colpisce centinai di milioni di individui e rappresenta pertanto uno dei problemi sanitari di maggiore impatto individuale e sociale. Costituisce un importante fattore di invalidità soprattutto per il sesso femminile, che risulta maggiormente colpito con un rapporto di prevalenza donna/uomo 2:1, 3:1.
Dal punto di vista classificativo, il mal di testa presenta forme primarie e forme secondarie.
Le cefalee primarie includono quelle che originano da disfunzioni intrinseche del sistema nervoso, spesso di natura genetica, e predispongono a un’aumentata vulnerabilità agli attacchi di mal di testa. Le cefalee secondarie, invece, possono originare da più di trecento condizioni cliniche tra le quali sono più frequenti i disturbi vascolari celebrali, le neoformazioni intracraniche, le turbe ipertensive/ipotensive, le infezioni, i disturbi metabolici endocrini e le patologie del tratto celebrale della colonna vertebrale.
Nell’ambito delle cefalee primarie sono raggruppate l’emicrania (che può presentarsi con aura, senza aura o in forma cronica), la cefalea a grappolo e la cefalea muscolo-tensiva.
1) L’emicrania è un disturbo neurofisiologico complesso, caratterizzato da forme episodiche e progressive di mal di testa associato a manifestazioni neurologiche o non neurologiche che possono precedere, seguire o presentarsi contestualmente alla comparsa del dolore. In genere, il dolore è localizzato in una metà del cranio, ma a volte è esteso a tutto il capo; la nausea, il vomito, disturbi della visione con fastidio alla luce sono spesso presenti. L’emicrania, si è già detto, è classificata in tre maggiori sottotipi:
- Emicrania con aura: sintomi premonitori si presentano da 30 minuti ad un’ora prima dell’insorgenza del mal di testa;
- Emicrania senza aura: l’attacco non è preceduto da sintomi premonitori;
- Emicrania cronica: si ha quando si registrano episodi di cefalea, anche a frequenza ravvicinata, fino a 15 o più ogni mese. Quest’ultimo sottotipo è una condizione particolarmente invalidante che può associarsi a disturbi psichiatrici anche importanti quali ad esempio depressione maggiore, ansia o attacchi di panico.
Nell’80-90% dei casi i sofferenti di emicrania presentano una familiarità e il sesso femminile è maggiormente colpito. Le crisi emicraniche hanno una durata da 4 a 72 ore e sono spesso accompagnate da sintomi neurovegetativi e cognitivi. Sono stati riconosciuti diversi fattori capaci di scatenare le crisi di emicrania in individui particolarmente predisposti, essi sono: le fluttuazioni ormonali (periodo mestruale, uso di contraccettivi orali, o terapie sostitutive), i cambiamenti metereologici, alcuni tipi di alimenti, pasti saltati o consumati in fretta, sonno eccessivo o ridotto riposo notturno, ed infine stress psicofisico.
2) La cefalea a grappolo è relativamente meno frequente rispetto all’emicrania e alla cefalea muscolo-tensiva e affligge prevalentemente gli uomini con un rapporto 3:1 rispetto alle donne; può avere una durata da 30 a 120 minuti e gli attacchi possono ripetersi fino a 6 volte nell’arco della giornata. Il dolore insorge prevalentemente durante il sonno, è localizzato più spesso intorno ad un’orbita oculare ed è accompagnato da lacrimazione, arrossamento degli occhi, diminuzione del diametro della pupilla dal lato dolente ed è presente spesso un abbondante produzione di muco nasale.
3) La cefalea muscolo-tensiva, descritta da chi ne soffre come un mal di testa ottuso e non pulsante, è tipicamente bilaterale e fra i diversi tipi di mal di testa sembra avere come causa esclusivamente fattori ambientali. Sembra che trovi origine generalmente da situazioni di conflitti emotivi e stress psico-sociali, ma la relazione causa/effetto non è stata sufficientemente chiarita. In ogni caso, quando le manifestazioni episodiche non sono trattate in modo adeguato (e ciò vale per tutti i tipi d cefalea!), il rischio della cronicizzazione del problema è molto elevato.
La terapia dei diversi tipo di cefalea presuppone una precisa conoscenza delle diverse forme esistenti e richiede una particolare competenza nel trattamento delle diverse tipologie. Affinché i pazienti possano avere sicuri benefici dai trattamenti disponibili, è necessaria una diagnosi precisa delle manifestazioni dolorose, come pure è importante determinare la frequenza, la severità degli attacchi e l’eventuale presenza o assenza di associati disturbi psichiatrici, neurologici, neurovegetativi ecc.
Solo attraverso un’accurata indagine anamnestica e una scrupolosa valutazione dello stato clinico, il medico specialista in terapia del dolore procederà alla formulazione della terapia più indicata e potrà far ricorso a farmaci e/o a trattamenti non farmacologici.
Comunque, in considerazione della evidente complessità del problema, risulta utile per quanti sono affetti da cefalea rivolgersi ai numerosi centri presenti sul territorio nazionale nei quali viene affrontato, con la maggiore competenza possibile, il problema.
Prof. Gianvincenzo D’Andrea,
Vicepresidente Fondazione ISAL

Il dolore lombosacrale (DLS, mal di schiena) rappresenta la seconda causa di disabilità nel mondo occidentale, preceduta dalla cefalea e seguita dal dolore cervice brachiale.
Esso origina dalle strutture anatomiche vertebrali e/o paravertebrali nella regione lombosacrale (parte inferiore della schiena) e può estendersi a tutta l’area dei glutei.
In alcuni casi, un dolore radicolare (per irritazione e/o compressione di una radice nervosa) esteso a tutto un arto inferiore può accompagnarsi al DLS, ma tale condizione va considerata come un’entità separata con una differente fisiopatologia (si parla in questi casi di “Lombosciatalgia” o “Sciatica”).
Il dolore lombosacrale rappresenta la quinta causa di richiesta di una visita medica negli USA e nel mondo occidentale soffre di questo problema dal 50% all’80% della popolazione adulta.
Nella popolazione in età lavorativa, determina una perdita rilevante di ore di lavoro, con notevoli costi diretti ed indiretti stimati, negli USA, in 50 miliardi di dollari per anno.
Il dolore lombosacrale, pur presentandosi inizialmente in forma acuta con possibilità di risoluzione entro sei settimane, nel 72% dei casi può divenire persistente e può portare a una condizione di invalidità nel 12% dei casi.
Numerosi sono i fattori precipitanti, cioè che possono favorire l’insorgenza del dolore lombosacrale. Essi sono principalmente la ridotta attività fisica, l’attività lavorativa sedentaria, l’età maggiore a 55 anni e l’obesità.
Tra i fattori predisponenti (fattori di rischio) alla cronicizzazione del dolore lombosacrale vanno invece ricordati la presenza di un dolore di tipo sciatalgico, la sedentarietà, la rigidità vertebrale, la personalità ansioso-emotiva.
Il dolore lombosacrale può avere origini meccaniche o non meccaniche; nel primo caso insorge per sollecitazioni eccessive a carico delle strutture anatomiche vertebrali e paravertebrali (ossa, dischi intervertebrali, legamenti e muscoli); nel secondo caso può derivare da tumori, infezioni e infiammazione delle medesime strutture.
Un’anamnesi precisa e una visita scrupolosa consentono agevolmente di stabilire la tipologia del dolore presente (nocicettivo e/o neuropatico).
Anche nei casi più severi di dolore lombosacrale di origine meccanica si registrano variazioni di intensità durante l’arco della giornata, ma quando il dolore è lancinante, stabile e addirittura più forte durante le ore del riposo notturno, il sospetto che possa dipendere da una causa tumorale o infettiva è molto alto.
In ogni caso, non appena formulata l’ipotesi diagnostica del caso, il medico potrà suggerire il programma terapeutico più indicato.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica, nel dolore lombosacrale appaiono indicati il paracetamolo o i FANS, associati ai miorilassanti nella fase acuta; nelle forme croniche sono da preferirsi il paracetamolo (e non i FANS per i noti effetti avversi!) e gli oppioidi.
In alcuni casi in cui è stata precisamente individuata l’origine meccanica del dolore lombosacrale, si può fare ricorso alla terapia infiltrativa (epidurale, blocco delle faccette articolari, infiltrazione di legamenti e trigger point).
Una blanda mobilizzazione (anche nel dolore lombosacrale acuto) si è dimostrata capace di favorire un più rapido recupero rispetto al riposo a letto durante le ore diurne.
Infine, solo nell’1% dei casi di dolore lombosacrale si rende necessario il ricorso all’intervento da parte dello specialista neurochirurgo.
In conclusione, un’attenta valutazione del problema da parte di un medico esperto in terapia del dolore consente di raggiungere l’obbiettivo più atteso dai pazienti (il sollievo dal dolore), utilizzando un piano terapeutico che può far uso anche di diverse modalità di cura.
Prof. Gianvincenzo D’Andrea,
Vicepresidente Fondazione ISAL

Il dolore pelvico cronico viene definito come un dolore che persiste oltre 3 mesi e che interessa, in parte o interamente, la porzione corporea contenuta nel bacino, coinvolgendo strutture dermo-epidermico-sottocutanee, muscolo-scheletriche o fasciali, ovvero gli organi pelvici. Tale sintomatologia dolorosa può presentarsi con fenomeni acuti che si inseriscono su uno stato di dolenzia perenne. Il dolore pelvico, quando non ha un’ovvia origine da una lesione superficiale, proviene dagli spazi interni sottocutanei relativi al bacino e pertanto può originare dagli organi dell’apparato genitale, del basso tratto urinario o intestinale e dalle strutture neuro-muscolari, vascolari e osteoligamentose che vi sono situate.
Il dolore produce il maggior impatto sul paziente e può essere collegato al riempimento o svuotamento degli organi pelvici oppure essere avvertito in modo continuo o scatenato dalla pressione di trigger-point (punti precisi di scatenamento del dolore). Può essere caratterizzato dal tipo, frequenza, durata, da fattori precipitanti o di sollievo e dalla sede.
Termini come stranguria, spasmo vescicale e soprattutto disuria sono difficili da definire e di incerto significato, e non dovrebbero essere usati a meno che si stabilisca per essi un preciso significato. La sintomatologia, quindi, può essere localizzata in uno qualsiasi dei distretti che formano il sistema pelvi-perineale, oppure in uno solo di essi. Per praticità qui si schematizzerà la singola localizzazione; pertanto potranno presentarsi i seguenti quadri clinici:
Il dolore vescicale
E’ percepito a livello sovrapubico o retropubico, e gradualmente aumenta con il riempimento vescicale e può persistere dopo minzione.
Tale sensazione porta solitamente a incremento della frequenza minzionale (pollachiuria).
Il dolore uretrale
E’ percepito a livello uretrale. Nel maschio può essere localizzato lungo l’asta peniena, a livello scrotale o perineale; nella donna, invece, esso è localizzato al meato esterno (subito al di sotto del clitoride), ovvero sulla parete vaginale superiore, per appena 3 cm. Il dolore è presente indipendentemente dalla minzione, seppur si intensifica ad ogni atto urinario.
Il dolore vulvare
E’ avvertito attorno e all’interno della vulva. Può facilmente essere confuso con la vulvodinia, o la clitoridodinia, ma in entrambe queste condizioni è l’andamento nel tempo che definisce il quadro clinico.
Il dolore vaginale
E’ sentito all’interno dell’introito. Anche in questo caso è facile considerare tale quadro in tutto simile alla vulvodinia.
Il dolore scrotale
Può essere localizzato al testicolo, all’epididimo, al funicolo o alla cute scrotale.
Il dolore perineale
E’ avvertito nella donna tra la forchetta posteriore e l’ano e nel maschio tra lo scroto e l’ano.
Il dolore pelvico
E’ meno definito degli altri ed è meno chiaramente legato al ciclo minzionale o alla funzione intestinale o sessuale e non è localizzato ad alcun singolo organo pelvico. Può essere ciclico (mestruale) ed allora bisogna considerare una causa ormonale ginecologica.
La nevralgia del pudendo
Questo tipo di dolore merita un inquadramento a parte. In estrema sintesi, si può identificare con un bruciore vaginale, vulvare o scrotale e perineale che si accompagna a dolorabilità lungo il decorso del nervo pudendo. Recentemente sono state proposte 5 caratteristiche essenziali per la diagnosi di neuropatia del pudendo (criteri di Nantes):
- dolore nella regione innervata dal pudendo;
- peggioramento del dolore con la posizione seduta;
- nessun risveglio notturno per il dolore;
- assenza di deficit sensitivo all’esame obbiettivo;
- rimozione dei sintomi con il blocco anestetico del pudendo.
Le sindromi dolorose pelviche sono tutte croniche. Il dolore è il sintomo principale, ma spesso si associano sintomi del basso tratto urinario, intestinali, sessuali o ginecologici. Il sintomo doloroso prevalente deve guidare nella definizione della sindrome.
La sindrome dolorosa pelvica
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore pelvico associato a sintomi suggestivi di disfunzione del basso tratto urinario, sessuale, intestinale o ginecologica.
La sindrome della vescica dolente o dolorosa (ICS) o del dolore vescicale (ESSIC)
La definizione più recente di Sindrome del dolore vescicale (SDV) dell’ESSIC si richiama alla classificazione del dolore urogenitale della IASP. Il dolore sovrapubico è solitamente associato al riempimento vescicale e si accompagna ad altri sintomi come l’urgenza, la pollachiuria, la nicturia, in assenza di dimostrabile infezione urinaria o altra patologia manifesta come la calcolosi vescicale, il carcinoma uroteliale in situ e l’endometriosi. Sia l’ICS che l’ESSIC preferiscono questi termini rispetto a cistite interstiziale, che è una diagnosi specifica e richiede conferma dal riscontro delle caratteristiche cistoscopiche e istologiche. La diagnosi è pertanto più di esclusione di malattie confondenti e curabili diversamente. Il sintomo «urgenza» presente nella SDV, ovvero necessità urgente di mingere per la presenza di dolore sovrapubico, si differenzia da quello definito dall’ICS che si riferisce ad un improvviso ed irrefrenabile desiderio di mingere che può portare all’incontinenza in breve tempo.
La sindrome dolorosa uretrale
E’ rappresentata da ricorrenti episodi di dolore uretrale, di solito durante minzione, con pollachiuria e nicturia in assenza di documentabile infezione urinaria o altra patologia manifesta.
La sindrome dolorosa vulvare
E’ rappresentata da ricorrenti episodi di dolore vulvare che è o legato al ciclo minzionale o associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale. Non è dimostrabile infezione o altra patologia manifesta. L’ICS suggerisce di non usare il termine vulvodinia, perché porta a confusione tra il singolo sintomo e la sindrome; inoltre nella vulvodinia il quadro è più complesso poiché non si associa a modifiche funzionali e non è costante nella ricorrenza clinica.
La sindrome dolorosa vaginale
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore vaginale associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale. Non è dimostrabile infezione vaginale o altra patologia manifesta.
La sindrome dolorosa peniena
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore riferiti al pene. Possono associarsi sintomi di disfunzione sessuale.
La sindrome dolorosa scrotale
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore scrotale più o meno localizzato al didimo, epididimo o funicolo e eventualmente associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale. Può essere secondario a vasectomia. Non è dimostrabile una orchiepididimite o altra patologia manifesta.
La sindrome dolorosa perineale
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore perineale che è o legato al ciclo minzionale o associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale.
L’origine, le cause e la patofisiologia del dolore pelvico cronico rimangono spesso sconosciute. Alterazioni aspecifiche degli organi bersaglio e del sistema nervoso possono essere riscontrate senza però essere del tutto patognomoniche, cioè non hanno caratteri di specificità e di univoca responsabilità del quadro clinico. Non devono comunque essere presenti evidenze di infezione, cancerizzazione o neuropatie specifiche. Tuttavia, il dolore cronico può indurre cambiamenti del sistema nervoso centrale che possono mantenere la percezione del dolore in assenza di uno stimolo responsabile. Questi cambiamenti possono amplificare la percezione di stimoli non dolorosi fino a renderli dolorosi (allodinia; disestesia termo-tattile) oppure possono accentuare la sensazione di stimoli poco dolorosi (iperalgesia).
I muscoli pelvici possono diventare dolorosi con comparsa di punti scatenanti (trigger-point). Inoltre, può manifestarsi un’anomala attività efferente (che riguarda, cioè, l’azione comandata dal SNC sugli organi periferici) che può produrre alterazioni funzionali come sintomi dell’intestino irritabile o contratture della muscolatura perineale, associati o meno ad alterazioni strutturali e ultrastrutturali come una Flogosi Neurogenica (con conseguente Dolore Neuropatico). Da tempo, infatti, è noto il circolo vizioso che si innesca alla comparsa di dolore profondo e continuativo: infatti la percezione del dolore attiva le vie nervose che innescano una reazione involontaria di contrattura muscolare; ad essa si associa uno strozzamento dei vasi arteriosi intramuscolari con riduzione parziale dell’apporto di ossigeno; l’ipossia relativa è in grado di attivare i nocicettori tissutali che sono estremamente sensibili alle variazioni di ossigeno; l’attivazione dei nocicettori induce, per via riflessa, una ulteriore risposta contrattiva sulla muscolatura che rimette in moto il circolo vizioso del dolore, contrazione, ipossia, nocicettori, contrazione.
La diagnosi è principalmente basata sui sintomi e sull’esclusione di patologie conosciute che possono generarli. Pertanto, la gravità della malattia, la sua progressione e la risposta ai trattamenti possono essere valutate solo attraverso questionari sintomatologici validati o strumenti di valutazione dell’intensità dei sintomi.
Il trattamento si avvale di numerose modalità che spesso devono essere associate per migliorare i risultati (terapia multimodale). E’ purtroppo solo sintomatico e pertanto deve iniziare da quello più conservativo e privo di effetti collaterali che consenta di alleviare i sintomi e raggiungere una accettabile qualità di vita. L’impossibilità di raggiungere questi obiettivi – o quando la sintomatologia è particolarmente intensa – deve fare cambiare strategia e adottare trattamenti sempre più impegnativi, fino a quelli chirurgici, in particolare nelle forme più avanzate.
Fra i farmaci maggiormente usati vi sono: analgesici, oppioidi, narcotici, antinfiammatori, antidepressivi triciclici (amitriptilina), anti-istaminici anti H1 e anti H2, inibitori della ricaptazione della serotonina, Glicosaminoglicani (GAG) tipo Eparina ovvero Pentosanpolifosfato; terapia farmacologica topica; infiltrazione locale con Tossina Botulinica; Stimolazione Elettrica (SANS); e perfino chirurgia maggiore.
In presenza di ipertono perineale e/o trigger point vaginali o rettali sia nella femmina che nel maschio, è stato dimostrato un miglioramento della sintomatologia dolorosa e di urgenza/frequenza fino all’83% dei casi trattati con multiple sedute di compressione e stiramento manuale dei fasci muscolari individuati contratti e dolenti. Anche il biofeedback elettromiografico si è dimostrato efficace nel ridurre l’ipertono perineale dopo sessioni di addestramento alla contrazione e rilasciamento del pavimento pelvico di pazienti maschi con dolore pelvico cronico.
Dott. Felice Nisticò,
Urologo, Urodinamista, Uro-ginecologo
Responsabile Servizio di Urodinamica e Uro-Riabilitazione
Azienda Ospedaliera “Pugliese – Ciaccio” – CATANZARO –
S.O.C. di Urologia

Per nevralgia trigeminale si intende una sindrome clinica caratterizzata da improvvisi e ripetuti attacchi di dolore facciale localizzato in una delle tre branche del nervo trigemino.
Presenta una prevalenza di 1,5 casi ogni 10000 abitanti ed ha un picco di frequenza fra i 50/70 anni di età.
Nei casi di nevralgia trigeminale tipica (NT 1 sec Burchiel) si alternano periodi di assoluto benessere alle crisi dolorose che possono essere scatenate da alcuni stimoli (triggers), nella/ed intorno alla bocca, assolutamente comuni, come il mangiare, radersi, lavarsi i denti.
Nei casi di nevralgia trigeminale atipica (NT2 sec Burchiel) il dolore è continuo/subcontinuo caratterizzato da sensazione di bruciore e gli attacchi di nevralgia sono più rari.
Nella maggioranza dei casi la nevralgia trigeminale è causata da un conflitto neuro vascolare, ovvero dalla presenza di un vaso (più frequentemente un arteria) in stretto contatto con il nervo trigemino. Il contatto e la conseguente trasmissione della pulsazione del vaso inducono una demielinizzazione (perdita del normale rivestimento) del nervo, con conseguente innesco di un “corto circuito” della normale conduzione dello stimolo nervoso ed innesco del dolore parossistico.
La nevralgia trigeminale può essere però anche secondaria (circa il 10% dei casi) alla presenza di lesioni espansive (tumori) o malformazioni vascolari poste nell’angolo ponto cerebellare comprimenti il nervo, o secondaria alla presenza di placche in pazienti con sclerosi multipla.
La diagnosi della nevralgia trigeminale è, dunque, in primis clinica ma non può prescindere dalla risonanza magnetica per escludere patologie secondarie e confermare allo stesso tempo la presenza di un conflitto neurovascolare.
La prima linea di trattamento di questa malattia è di tipo medico/farmacologico e si fonda sull’uso di farmaci antiepilettici (carbamazepina, gapentin), miorilassanti, antidolorifici.
Nel corso del tempo, purtroppo, i farmaci tendono a perdere efficacia e si stima che circa il 60 % dei pazienti debba fare ricorso allo specialista neurochirurgo.
I trattamenti chirurgici possono essere grossolanamente suddivisi in due gruppi: procedure “fisiologiche/non distruttive” e procedure “distruttive” sul nervo.
Descritta per la prima volta nel 1967 da Jannetta la decompressione micro vascolare è da considerarsi il trattamento chirurgico di prima scelta in pazienti affetti da nevralgia trigeminale.
L’intervento consiste nel liberare il nervo dalle aderenze e dalla compressione dei vasi ponendo una sorta di “distanziatore” tra essi. In tal modo il nervo viene anatomicamente preservato in maniera “fisiologica”.
Questa procedura riesce a produrre l’immediata scomparsa del dolore nel 90 % dei casi ed a distanza di 10 anni è presente un buon controllo dei sintomi nel 75% dei pazienti.
Le procedure “distruttive” si basano sul principio di produrre una lesione parziale del nervo trigemino al fine di diminuire l’intensità del dolore. Possono essere effettuate per via percutanea (comprimendo o ledendo il nervo con radiofrequenze) o tramite radiochirurgia. Presentano rischi chirurgici leggermente inferiori ma allo stesso tempo inferiori tassi di remissione immediata (70%) e di controllo dei sintomi a 10 anni (60%).
In conclusione, in caso di nevralgia trigeminale, una volta verificato l’insuccesso della terapia con i farmaci, bisogna subito mettere in atto una terapia chirurgica, l’unica in grado dai dare sollievo al paziente evitando, come purtroppo si rileva frequentemente, il protrarsi di una sofferenza inutile.
Dott. Marcello D’Andrea
Neurochirurgo, esperto nel trattamento della Nevralgia Trigeminale
Ospedale Bufalini, Cesena
