Incontriamo i ricercatori che con ISAL combattono il dolore: Elisa Arnaudo ci racconta il suo progetto
Le anime di ISAL – Incontriamo i giovani ricercatori della Fondazione
Questo mese vi facciamo conoscere le anime di ISAL: i giovani ricercatori che dedicano la propria vita e le proprie competenze alla scoperta delle terapie e modalità più efficaci per contrastare il dolore cronico. Incontriamo Elisa Arnaudo, oggi referentedella Associazione Amici di Fondazione ISAL, che ci racconta il suo percorso di ricerca ed il suo progetto dedicato alla fibromialgia. Elisa è autrice del volume ”Dolore e medicina” (Edizioni Ets, 2016)
Quale è stato il tuo percorso e come hai incontrato ISAL?
Ho conseguito il dottorato di ricerca nel 2013 all’Università di Bologna con una tesi sul dolore cronico come malattia, era una tesi in filosofia della medicina che aveva come scopo quello di analizzare da un punto di vista filosofico, storico concettuale e etnografico le problematiche insite nel mancato riconoscimento del dolore cronico come malattia. Istituzionalmente e formalmente continuiamo a dire che il dolore cronico deve essere riconosciuto come malattia e non come sintomo, ma da un punto di vista pratico, nelle classificazioni di malattie internazionali, a livello di presa in carico e come riconoscimento dell’invalidità, questo riconoscimento non è effettivo. La prima parte della mia tesi era più concettuale mentre la seconda mi ha portato ad avvicinarmi principalmente alla fibromialgia come sindrome da dolore cronico; ho svolto un’analisi di tipo etnografico osservando il modo in cui si svolgono gli incontri tra i medici reumatologi e i pazienti fibromialgici e quali fossero le problematiche.
Con alcune pazienti incrociate nel mio percorso ho poi cercato di analizzare quale fosse il vissuto della malattia e cosa significa convivere quotidianamente con una condizione di dolore cronico complessa quale è la sindrome fibromialgica.
Svolgendo questa tesi di dottorato ho conosciuto la coordinatrice nazionale ISAL Chiara Moretti e sono entrata così in contatto con Fondazione ISAL e con il Professor Raffaeli, al quale interessava portare avanti questo tema di ricerca, dal momento che il dolore come malattia è il tema storico di ISAL, abbiamo iniziato così questa collaborazione, producendo un articolo che ora è in lettura per una rivista internazionale.
Come è entrata nella tua vita l’idea di fare questo tipo di ricerca coniugando filosofia e medicina?
Mi sono sempre interessata alla filosofia applicata alle scienze e in particolare alla medicina, la mia tesi di laurea triennale era sulla norma e la normalizzazione in medicina, mentre la mia tesi di laurea specialistica era sul tema dell’eutanasia. Il mio studio della filosofia è sempre stato inteso come applicato: vedo la filosofia come una cassetta per gli attrezzi che ti aiuta ad eviscerare concetti e a comprendere meglio dove c’è confusione o ambiguità, per rischiarare portando avanti il metodo classico di indagine filosofica, ovvero la domanda. La medicina per me è stata sempre molto interessante, per quanto rientri nell’ambito delle scienze naturali, essendo applicata allo studio, al trattamento e alla cura dell’essere umano inteso come persona, ha una valenza umanistica. Mi sono sempre interessati gli aspetti più liminali e di confine della medicina: il momento in cui si scontra con situazioni un po’ al limite, sono temi particolarmente interessanti per un filosofo. Questa grande impresa positivista si incaglia davanti a situazioni di cronicità, in cui bisogna portare avanti quell’approccio olistico di cui tanto si parla ma che nella pratica poco purtroppo si realizza come presa in carico. In una condizione di cronicità complessa come la fibromialgia, a cavallo tra mente e corpo, devi aiutare la persona a convivere con una malattia, dove questo riconoscimento del dolore cronico come malattia è più formale che concreto.
Abbiamo importantissime dichiarazioni ufficiali da parte dei maggiori enti: International Association for the Study of Pain (IASP), la più prestigiosa istituzione scientifica che si occupa dello studio e del trattamento del dolore, l’EFIC The European Federation of IASP Chapters, il corrispondente europeo della IASP, che affermano che il dolore cronico va riconosciuto come vera e propria malattia, eppure ci sono tantissime persone che soffrono di dolore cronico e non riescono ad accedere a una presa in carico adeguata.
Il dolore cronico coinvolge diversi ambiti, essendo a cavallo tra la mente e il corpo e caratterizzato dal circolo vizioso di reazioni di tipo fisiologico, psicologico e comportamentale, quindi deve esserci per forza una presa in carico integrata multidisciplinare.
Negli ospedali la fibromialgia viene gestita dal medico reumatologo, che si trova di fronte manifestazioni di dolore a carico dei tessuti molli, ma anche altre manifestazioni patologiche molto gravi, come ad esempio la fibro-fog: una sensazione di confusione e di ottundimento che lamentano molte pazienti, e poi ansia, depressione, problematiche nella gestione del sonno. E’ chiaro che un reumatologo non può da solo prendere in carico questa complessità, e ciò comporta che il dolore cronico come entità complessa di malattia non sia completamente riconosciuto, perché purtroppo non esiste ancora questa cultura della presa a carico olistica, globale, integrata. Il dolore cronico è sì riconosciuto formalmente come malattia, ma se chiedi ai milioni di italiani che passano la loro vita soffrendo da quando si svegliano a quando vanno a dormire, non riescono a trovare una risposta da parte del sistema sanitario, questo significa che un vero riconoscimento del dolore cronico come malattia non c’è.
Puoi raccontarci qualcosa che ti è rimasto particolarmente caro della tua ricerca, anche dal punto di vista dell’incontro umano con i pazienti.
Il mio lavoro, sia l’osservazione delle visite che le interviste alle pazienti, non è stato il classico lavoro che fa un filosofo, perché purtroppo si tende a vedere la filosofia come disamina di concetti e non in senso applicato. Il filosofo di solito non fa ricerca sul campo, la fanno generalmente antropologi o i sociologi; il tipo di ricerca che ho fatto si definisce etnografica. Nella prima parte della mia ricerca mi sono immersa in maniera totale in quello che di solito fa un filosofo: ho cercato quale fosse l’etimologia di dolore cronico, quando fosse stato definito come tale per la prima volta e da chi, come venisse definito nelle classificazioni di malattia. Sentivo che proprio per la particolarità della condizione che studiavo alla mia ricerca mancava qualcosa: c’era troppa teoria e mi sembrava di perdere il punto e non avere il quadro completo; ho deciso che mi serviva una sorta di confronto diretto. La fibromialgia è emblematica di quanto sia difficile trovare un approccio completo al dolore cronico, così ho orientato in questa direzione la mia ricerca sul campo: ho deciso di fare una prima osservazione dei consulti tra medici e pazienti. Quando il medico di base ha il sospetto che tu abbia una malattia reumatica ti fa l’impegnativa e ti manda dal medico reumatologo, è ciò che accade alle pazienti che hanno la fibromialgia; quello che ho osservato mi è servito tantissimo ed è una parte fondamentale della mia ricerca, che sarebbe stata incompleta se non avessi fatto questo lavoro. Quando sono arrivata in ospedale avevo una sorta di pregiudizio nei confronti dei medici, era nato leggendo le storie delle pazienti che soffrono di fibromialgia e che spesso sono donne che hanno passato vent’anni alla ricerca di una diagnosi sentendosi dare delle pazze, io stessa soffrendo anche solo di emicrania spesso mi sono sentita non capita: il dolore non puoi mostrarlo, è molto difficile capire chi vive in una condizione di dolore cronico. Eppure assistendo ai consulti ho capito che il mio era solo un pregiudizio: non è che i medici non vogliano aiutare queste pazienti, il fatto è che non possono: i trattamenti farmacologici a loro disposizione non funzionano con i fibromialgici, per un breve periodo di tempo l’anti depressivo l’anti epilettico o il miorilassante possono avere effetto, ma poi i tanti farmaci fanno interazione fra di loro ed hanno effetti collaterali molto forti a livello cognitivo; questo è un problema molto forte nella fibromialgia e spesso non viene preso in considerazione, il risultato di tutto questo è il fatto che molti pazienti finiscono per non rispettare la terapia che gli viene data.
La storia della maggior parte dei pazienti con fibromialgia è quella del pellegrinaggio della sofferenza: queste perone entrano dallo specialista reumatologo, poi dal neurologo, poi dal gastroenterologo, cosa che non è positiva né per loro né per i medici che li incontrano in seguito. E’ un problema strutturale dal mio punto di vista ed è una delle conclusioni principali della mia tesi: finché i pazienti non si troveranno in uno studio un reumatologo, un fisiatra, un neurologo che collaborano non ci sarà una soluzione a questo problema, non per cattiva gestione dei medici o per problemi psicologici dei pazienti, ma perché c’è alla base una strumentazione errata. Il modello storico per la presa in carico del paziente con dolore cronico complesso è questa forma integrata, mentre ogni negli ospedali si punta sempre di più sull’iper- specializzazione e su un trattamento del paziente più come cliente che come persona di cui prendersi cura in maniera globale.
Così i fibromialgici continuano a tornare in cerca di medici e diagnosi, perché non hanno risposte e continuano a stare male, non trovano soluzioni a un problema globale. Senza l’osservazione in clinica questa cosa non l’avrei mai capita.
La parte di lavoro che ho svolto con le pazienti è stata la più coinvolgente anche a livello emotivo. Mi sono ispirata al progetto realizzato da un centro per il dolore cronico di Londra, insieme ad una fotografa molto brava hanno pubblicato un libro fotografico, gli scatti rappresentano metaforicamente le descrizioni di sofferenza dei pazienti. Per non portare avanti il pregiudizio che avrei potuto avere nel descrivere il dolore cronico, ho scelto di intervistare alcune pazienti utilizzando queste immagini: chiedevo loro di sfogliare il libro e di dire che cosa le immagini evocassero, se gli ricordassero qualche momento della loro giornata, cosa significasse per loro convivere con il dolore. E’ stato molto utile, ma ancora di più lo è stata la seconda parte del lavoro: ho chiesto a queste stesse pazienti di creare a loro volta una sorta di album fotografico, utilizzando delle macchinette fotografiche usa e getta e un piccolo diario. Ho chiesto di raccontare attraverso fotografie da loro scattate e descrizioni, che cosa significasse convivere con la sindrome fibromialgica. Sono state favolose, è stato veramente emozionante: quello che è emerso è stata innanzitutto l’individualità, proprio perché nella condizione di cronicità emergono molti aspetti personali, psicologici, ambientali, e sociali. La storia della loro malattia è intrecciata con la storia della loro vita personale, ci sono cose che coincidono e da un punto di vista emotivo e metaforico è stata la parte più forte, non me lo aspettavo neanche io perché è stato un progetto sperimentale. Quando nei convegni faccio vedere queste immagini con i commenti ci sono persone che si commuovono e c’è proprio ciò che io volevo: la trasmissione in diretta delle emozioni; un problema che hanno le persone che soffrono di dolore cronico è proprio il fatto di non riuscire a trasmettere che cosa sia la loro esperienza.
C’è qualcosa che senti di aver scoperto proprio tu, grazie alla tua ricerca?
C’è un aspetto venuto fuori proprio nella seconda parte del lavoro, da una congiunzione dell’osservazione in clinica e delle narrazioni delle pazienti con le fotografie. Ho notato che i medici reumatologi, quando hanno difficoltà ad affrontare situazioni di fibromialgia complessa con comorbidità di ansia o depressione, suggeriscono ai pazienti di consultare anche uno psicologo, eppure i pazienti cercano di evitare una presa in carico psicologica, in letteratura si forniscono delle risposte a questo problema, per lo più si indica la paura della stigmatizzazione, dell’essere etichettati come malati mentali, quasi che il loro dolore fosse considerato meno reale. In realtà dalle interviste che ho realizzato con i pazienti è emerso un discorso un po’ diverso: il motivo per cui la maggiorate dei pazienti, anche se consigliati, non prendono in considerazione di andare da uno psicologo, è dovuto a mio parere proprio alla mancanza di un approccio integrato, hanno paura che intraprendere un altro percorso comporterebbe l’abbandono terapeutico, ovvero temono che indirizzandoli ad uno psicologo il proprio medico in qualche modo li stia mettendo da parte. Se avessimo una presa in carico completa, il paziente non dovrebbe scegliere se andare dal reumatologo o dallo psicologo ma li incontrerebbe entrambi all’interno di una squadra, un team in grado di prendere in carico la globalità della condizione, dal momento che la fibromialgia ha sia sintomi di tipo cognitivo e psicologico che sintomi di tipo reumatico e neurologico.
Questo è anche uno degli obiettivi che condividi con ISAL, quali passi stiamo compiendo in questa direzione?
Riuscire ad attivare una comunicazione tra medici e pazienti è una delle battaglie di ISAL, il 24 giugno a Reggio Emilia terremo un incontro dedicato proprio a questo. Ci sarò io come rappresentate delle scienze sociali, due rappresentanti di associazioni di pazienti e due medici: il Professor William Raffaeli come medico algologo e la dottoressa Fulvia Rossi, reumatologa che lavora proprio a Reggio Emilia con pazienti fibromialgici. Lo scopo è riuscire ad attivare un dialogo, spesso i medici indicano una mancata comprensione con i pazienti, così come i pazienti fibromialgici hanno difficoltà a trovare un medico di cui potersi fidare. Quello che facciamo con fondazione ISAL e con il ramo della Associazione Amici di Fondazione ISAL, di cui è presidente il dottor Gianvincenzo D’Andrea e di cui io sono referente, è cercare di attivare sul territorio un dialogo ed uno scambio tra medici e pazienti, con l’obiettivo di riuscire a comprendersi di più.
Hai già in mente una nuova ricerca? Sarà nel campo della fibromialgia o indagherai un altro territorio in ambito medico?
Sono membro di Cause Health, un gruppo di ricerca internazionale che ha sede a Oslo e con il quale sto portando avanti le mie ricerche sulla fibromialgia in collegamento con altre condizioni che hanno caratteristiche simili; in inglese si definiscono MUS: Medically Unexplained Syndromes, ovvero condizioni medicalmente non spiegate. Estendendo l’obiettivo e non focalizzandosi solo sulla fibromialgia, ci si rende conto che in ogni disciplina medica si incontra almeno una sindrome non spiegata, sono molte le condizioni di dolore cronico che hanno in comune il fatto di non essere medicalmente spiegate, con una grandissima prevalenza del genere femminile tra i pazienti.
Noi guardiamo all’essere umano sofferente, alla sofferenza nella sua complessità, al dolore cronico come malattia complessa di sofferenza. Proprio perché sono affascinata dal lavoro che fanno i medici a me interessa cercare di comprendere meglio come ragiona la medicina in base ai suoi scarti e angoli bui, alle condizioni a cui non riesce ad arrivare, che fondamentalmente parlano tutte la stessa lingua: sono condizioni di sofferenza profonda in cui lo sguardo dovrebbe arrivare, più che ai tessuti lesionati, all’essere umano nella sua complessità.
Ho preparato un lavoro sul dolore cronico e il dualismo mente corpo, questo è il lavoro che mi interessa fare: allargare l’inquadratura, portare avanti l’approccio che ho intrapreso nella mia ricerca, continuando a parlare con medici e pazienti, cercando di comprendere cosa significhi soffrire di dolore cronico ma anche trovarsi di fronte alla sofferenza umana.