Cannabis terapeutica: l’appello dei pazienti al governo per un disatteso diritto alla salute
Dopo 15 anni, l’applicazione della Legge sulla cannabis a uso medico è ancora disomogenea nelle diverse regioni del nostro Paese, e anche quando può essere prescritta sopraggiunge il problema della reperibilità del farmaco, talvolta introvabile, con gravi conseguenze per la salute delle persone con dolore cronico.
Di seguito riportiamo una lettera aperta indirizzata al Presidente Mario Draghi e al Ministro Roberto Speranza per dare voce alle migliaia di persone che in questo momento stanno soffrendo per la mancanza di una cura efficace, e per rivendicare un diritto alla salute – quello della terapia del dolore – sinora fin troppo disatteso.
dall’introduzione della cannabis a uso medico in Italia, ma per molti pazienti le terapie sono spesso una chimera e non riescono ad avere quei farmaci che potrebbero alleviare dolore o contrastare i sintomi delle loro malattie. Il problema? La legge del 2006 viene disattesa. Quando le Regioni la applicano, lo fanno in modo disomogeneo. A volte la ignorano. Le cose possono cambiare da un ospedale all’altro, da una città all’altra. E quando la ricetta del dottore arriva, c’è il problema della reperibilità di queste sostanze per produzione insufficiente e scarse importazioni. Con problemi burocratici o personale sanitario ancora poco preparato.
Al presidente del Consiglio Mario Draghi l’Associazione Luca Coscioni e Forum Droghe, a nome delle oltre 400 persone che hanno digiunato per la cannabis, si sono rivolte chiedendo di convocare la conferenza nazionale sulle droghe, come previsto dall’articolo 15 del Testo Unico sugli stupefacenti. Con l’obiettivo di avviare la valutazione delle politiche più adeguate in materia e tutelare i pazienti come Walter De Benedetto.
Oltre a soffrire per l’artrite reumatoide si è trovato a combattere una battaglia legale per ottenere le terapie. Per contrastare i dolori si è fatto aiutare da un amico nella produzione domestica di piante. E si è visto coinvolto in un processo per coltivazione di sostanza stupefacente in concorso. Situazioni difficili che in questi mesi hanno visto la solidarietà di tantissime persone che hanno partecipato al “digiuno per la cannabis” per sensibilizzare le istituzioni sul tema.
Cannabis terapeutica, storia di una cura “impossibile”
Inoltre da poco l’Onu ha cancellato la cannabis dalle sostanze dannose. Sempre di più si parla del Cannabidiolo o Cbd come di una ‘molecola multitasking’ per trattare diverse patologie. Dall’epilessia ai balsami, dalla cura del dolore e dell’insonnia agli orsetti gommosi. Abbiamo provato a fare il punto sugli studi più recenti in materia. Storie di pazienti, di persone, che si intrecciano a una terapia che può aiutarli ad affrontare giornate complicate.
L’epilessia di Charlotte
E’ emblematica anche la storia di Charlotte, una bimba nata nel 2006 da una famiglia di Colorado Springs, negli Stati Uniti. La prima crisi epilettica arrivò a tre mesi. La diagnosi gelò i genitori Matt e Paige: sindrome di Dravet, una rara e violenta forma di epilessia, che si manifesta con crisi epilettiche, disturbi cognitivi e difficoltà motorie ed è farmaco-resistente. Vennero provate tutte le terapie convenzionali, poi i farmaci sperimentali e la dieta chetogenica, ma la malattia avanzava inesorabile. Tanto che Charlotte, dopo pochi anni, fu costretta ad alimentarsi con un sondino e muoversi in sedia a rotelle, fiaccata da oltre 300 crisi convulsive a settimana. I dottori suggerirono il coma indotto, per dare respiro al suo corpo indebolito. Fu nel 2011 che Paige e Matt Figi, sfiniti dalla lotta della figlia, vennero a sapere di un altro bimbo con la stessa patologia che sembrava beneficiare di un particolare composto della Cannabis e decisero di somministrarlo alla figlia. Ciò che osservarono fu eccezionale: le convulsioni scomparvero quasi completamente dopo trenta giorni. E nel giro di venti mesi, Charlotte non aveva più bisogno di gran parte degli altri farmaci antiepilettici: ricominciò a camminare, andare in bici e giocare con la sua sorella gemella Chase.
Il Cbd
L’estratto dalla Cannabis che secondo i genitori salvò la vita a Charlotte è il Cannabidiolo (o Cbd), uno degli oltre 100 cannabinoidi finora identificati ed estratti dalla pianta di Cannabis Sativa. A differenza del suo “cugino high” – il Delta-9-tetraidrocannabinolo (o Thc) – non è psicotropo e dal 2017 è considerato dall’Oms “sostanza non stupefacente adatta all’uso medico”. Se la storia della piccola Charlotte Figi ha oltrepassato i confini del Colorado è grazie a un documentario della Cnn pensato nel 2013 dal neurochirurgo Sanjay Gupta. Charlotte purtroppo non c’è più dall’aprile scorso, ma la sua esperienza ha portato molti malati a chiedere il pieno riconoscimento del cannabidiolo come trattamento, rivoluzionando di fatto l’intero panorama della cannabis medica.
A distanza di pochi anni, il fitocannabinoide ha conquistato una parte più ampia di consumatori (non solo coloro che l’assumono per necessità) ed è diventato un autentico trend-topic salutistico. Creme, integratori, infusi, e-cig, cristalli, shampoo, oli, orsetti gommosi: il mercato si è sbizzarrito presentando la molecola come un antidoto universale per ogni malanno. Ma si sa: i proclami del marketing e la realtà scientifica viaggiano su strade tanto parallele quanto destinate a non incontrarsi mai. Se sono state infatti dimostrate nel tempo l’azione ansiolitica, analgesica, antiepilettica o sonnifera del Cbd, prima di considerarlo alla stregua di un medicinale per trattare condizioni specifiche servono conferme che solo ricerca e sperimentazione possono dare.
L’epilessia resistente
Esistono prove millenarie che testimoniano l’uso terapeutico dei derivati della cannabis, ma i primi dati scientificamente rilevanti sul Cbd arrivano nella seconda metà del secolo scorso. Nel 1963 Raphael Mechoulam, un professore di chimica della Hebrew University di Gerusalemme, considerato il padre della ricerca moderna sulla cannabis medica, individuò la struttura molecolare del cannabidiolo. Pochi anni più tardi, nel 1978, il gruppo guidato da Mechoulam pubblicò un trial clinico che dimostrava per la prima volta l’effetto antiepilettico del Cbd. A poco più di quarant’anni dalle prime ricerche di Mechoulam, l’unico medicinale a base di Cbd approvato oggi – sia dall’europea Ema che dalla statunitense Fda – cura proprio l’epilessia: Epidiolex di GW Pharmaceuticals. O meglio, il farmaco mira a ridurre l’insorgenza delle convulsioni associate a due rare forme di epilessia farmaco-resistente che esordiscono in età infantile: la sindrome di Lennox-Gasteaut e quella di Dravet, la patologia che colpì Charlotte Figi.
L’epilessia è uno dei disturbi neurologici più diffusi al mondo con 70 milioni di malati, circa un terzo dei quali mostra resistenza alla terapia (principalmente sintomatica) con anticonvulsionanti. Epidiolex ha superato nel 2018 le tre fasi della sperimentazione clinica, forte dei trial del professor Orrin Devinsky, direttore del Comprehensive Epilepsy Center della New York University. Ricerche ispirate anche dalla battaglia di Charlotte – come lo stesso Devinsky ha più volte dichiarato – i cui risultati hanno dimostrato efficacia e sicurezza del cannabidiolo. Nel dettaglio, in un primo studio i soggetti trattati ogni giorno con dosi da 5 a 50 mg per kg di peso, riducevano del 36% gli episodi convulsivi, mentre in una successiva ricerca (a doppio-cieco controllato con placebo, in cui nessuno sa chi assume il placebo e chi il principio attivo), con 10-20 mg la frequenza calava fino al 42%.
“Sparivano le convulsioni”
“In alcuni bambini le convulsioni sono addirittura sparite del tutto”, sottolineava Devinsky dinanzi a risultati tanto eccellenti. Ma in quale modo il cannabidiolo riuscirebbe a placare l’epilessia farmaco-resistente? A spiegarlo è il professor Pasquale Striano, medico epilettologo e neurologo pediatra dell’Istituto Gianna Gaslini di Genova, tra i maggiori esperti italiani sulle encefalopatie epilettiche dell’età evolutiva e sugli effetti terapeutici del Cbd in quest’ambito. “Si tratta di una molecola che ha meccanismi d’azione non convenzionali rispetto alle cure standard – osserva Striano – il Cbd agisce su due recettori specifici: il GPR55, che se inibito ha effetti anticonvulsivi, e il TRPV1, recettore della capsaicina – ingrediente attivo del peperoncino rosso e potente disinfiammante – anch’esso coinvolto nella modulazione delle crisi epilettiche”. A ribadire l’azione antiepilettica del cannabidiolo, c’è un recente studio del gruppo guidato da Striano al Gaslini in cui, dopo un follow-up di 24 settimane, il 73% dei pazienti curati con cbd puro per via sublinguale riportava una significativa riduzione delle convulsioni, mentre il 19% addirittura azzerava gli episodi. Come si spiegano questi dati estremamente incoraggianti? “Il cannabidiolo somministrato per bocca, come nei trial Usa, ha una biodisponibilità dal 4 al 10% (vuol dire che oltre il 90% viene smaltito ndr), mentre per via sublinguale sale all’80-85%”, risponde Striano. E ciò permette dosaggi più generosi.
Sclerosi tuberosa complessa
Il primo farmaco a base di Cbd è stato approvato pochi mesi fa da Fda anche per il trattamento dell’epilessia associata alla sclerosi tuberosa complessa (Tsc), una malattia genetica che colpisce 1-2 milioni di persone al mondo e 1 su 6000 nuovi nati. Sintomo principale: le convulsioni, che si presentano nell’80% dei casi e quasi sempre nella prima infanzia. Sono numerose le prove cliniche a supporto della cura per la Tsc. Tra le principali c’è un trial controllato randomizzato messo a punto da Elizabeth Thiele, professoressa di Neurologia alla Harvard Medical School. Dei 224 pazienti trattati con Cbd (25-50 mg per kg di massa corporea al giorno), “il 48-49% ha ridotto significativamente gli episodi nelle 16 settimane di osservazione”, si legge nelle conclusioni.
Sclerosi multipla e cannabis terapeutica negata, la storia di Loredana
L’epilessia resistente è senza dubbio una delle applicazioni più concrete del cannabidiolo, ma ha solo vantaggi oppure ci sono limiti? “C’è un equivoco che va chiarito – avverte Striano – il Cbd non è il più efficace degli antiepilettici, e soprattutto bisogna combattere l’idea sbagliata che si tratti di un prodotto natural, ‘che fa meno male’. Si tratta al contrario di un farmaco con un alto profilo di sicurezza e tolleranza, che può essere prescritto da uno specialista epilettologo nei casi in cui il paziente abbia provato almeno due antiepilettici senza risultato”. Come è stato ribadito al congresso nazionale della Lega Italiana contro l’Epilessia (Lice), c’è evidenza che farmaci a base di cbd puro possano essere efficaci in forme di epilessia anche diverse da quelle legate alla Lennox-Gasteaut e alla Dravet. “Un discorso che potremmo estendere potenzialmente a tutte quelle malattie in cui c’è un’infiammazione cronica di basso livello come il disturbo del sonno, la sindrome metabolica o l’asma – aggiunge Striano – ma al momento l’indicazione di usarli è limitata alle patologie per cui sono stati approvati”.
La schizofrenia
Insieme all’epilessia, uno dei campi d’azione più interessanti del cannabidiolo, è quello dei disturbi psicotici, in particolare la schizofrenia e le psicosi schizofreniformi. La prima è un disturbo mentale caratterizzato dall’alterazione delle funzioni cognitive, comportamentali, comunicative e percettive. Colpisce 20 milioni di persone ed è trattata anche con psicoterapia. Già nel 1995, Mechoulam descrisse i miglioramenti dei sintomi di un paziente schizofrenico trattato con dosi elevate di Cbd.
Allucinazioni, deliri, manie e pensiero disorganizzato sono i sintomi più comuni detti ‘positivi’, ovvero non presenti in individui sani; quelli “negativi” al contrario, includono apatia, deficit dell’attenzione e compromissione dei rapporti interpersonali. Dopo gli studi di Mechoulam, si sono susseguite varie pubblicazioni, quasi tutte case-report (analisi su singoli o pochi casi ndr), mentre sono pochissimi gli studi con placebo, che però confermerebbero una certa azione antipsicotica del cannabidiolo. Due i più rilevanti: il primo, in cui il team di ricerca diretto da Markus Leweke, del Central Institute of Mental Health di Mannheim, ha confrontato lungo 4 settimane gli effetti del Cbd puro con quelli dell’Amisulpride, un potente antipsicotico. “Entrambi i farmaci alleviavano i sintomi – afferma Leweke – ma il Cbd ha mostrato un profilo di tolleranza migliore, minor perdita di peso e sintomi come distonia, tremori e rigidità”.
Come antipsicotico
Con questa pubblicazione, definita dalla comunità scientifica ‘rivoluzionaria”, Leweke e colleghi hanno offerto anche una prima spiegazione del meccanismo d’azione del Cbd come antipsicotico: i pazienti trattati mostravano livelli più elevati di anandamide, un endocannabinoide prodotto dal nostro organismo, che in effetti proteggerebbe dalle psicosi. Il secondo vasto studio messo a punto dal professor Philip McGuire dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze del King’s College di Londra, ha testato per la prima volta il fitocannabinoide come coadiuvante delle terapie standard con antipsicotici. “Dopo sei settimane di follow-up – scrivono i ricercatori – il gruppo Cbd ha diminuito i sintomi positivi sulla base della scala Panss (Positive and Negative Syndrome Scale, la scala di valutazione che ne misura la severità, ndr)”. Nonostante i dati incoraggianti di Leweke e McGuire, la comunità scientifica non è ancora convinta fino in fondo dei benefici Cbd contro le psicosi.
Uno studio placebo-controllato del 2018 seguì lungo sei settimane pazienti trattati con antipsicotici convenzionali. Il gruppo curato con cannabidiolo in aggiunta (600 mg/giorno) non mostrava miglioramenti significativi secondo la scala Panss o sulla performance cognitiva. L’opinione degli esperti è chiara: da un lato sono ancora pochi i trial controllati, e dall’altro le dosi impiegate negli studi clinici e preclinici sono troppo diverse tra loro e spesso ‘sporcate’ da tracce di Thc. In altre parole, le evidenze sull’efficacia del Cbd in campo psichiatrico sono ad oggi incomplete.
Il dolore neuropatico e l’infiammazione
In cima alla lista degli impieghi terapeutici del cannabidiolo (e della cannabis medica in generale) c’è senza dubbio il trattamento del dolore. Specie il dolore neuropatico, generato da un danno o una patologia del sistema nervoso centrale o periferico, che colpisce tra il 7 e il 10% della popolazione mondiale. Responsabili principali sono neuropatie come quella diabetica, quella periferica causata da trattamenti come radio o chemioterapia, il dolore post-ictus oppure la sclerosi multipla. Le terapie farmacologiche attuali riescono a garantire solo alla metà dei pazienti una riduzione significativa del dolore.
Se l’azione analgesica del Cbd non è ancora stata riconosciuta per intero, dopo anni di esperienza clinica, la cannabis medica è senz’altro un’arma in più a disposizione dei terapisti del dolore. Ma come lo allevia? “Il Cbd agisce su recettori che mediano la trasmissione del dolore e l’infiammazione – spiega Gabriella Gobbi, professoressa di Psichiatria alla McGill University di Montreal – così come su almeno uno dei recettori della serotonina, il 5-HT1A”.
Contro la depressione
Con il suo gruppo del Brain Repair and Integrative Neuroscience, Gobbi ha dimostrato che il cannabidiolo esercita sul cervello un effetto fisiologico del tutto simile a quello degli inibitori selettivi del reuptake di serotonina (SSRI), usati per trattare la depressione.
“A pochi giorni dall’assunzione, si mette in moto la desensibilizzazione del 5-HT1A e il conseguente aumento della trasmissione serotoninergica, proprio come accade con gli SSRI”. Ma se non ci sono ancora evidenze soddisfacenti a supporto di un vero e proprio effetto antidepressivo del cbd, il team coordinato da Gobbi ha notato in test preclinici che piccole dosi sarebbero in grado di ridurre il dolore neuropatico, così come l’ansia. Il Cbd offrirebbe così un trattamento alternativo ad oppiodi e Thc; “una soluzione non certo egualmente efficace – precisa Gobbi – ma senza quegli effetti collaterali”. Insomma, i riscontri preclinici su dolore e infiammazione cronica sono incoraggianti, anche se sono ancora pochi i trial clinici placebo-controllati.
Un’ultima analisi su malati di artrosi ha testato un gel al cannabidiolo. “Chi l’ha ricevuto ha ridotto il dolore di più rispetto al gruppo placebo”, conclude la pubblicazione. In definitiva, le evidenze sembrerebbero sostenere l’uso del fitocannabinoide come attenuante del dolore, ma fino a che punto? “Non sbaglieremmo a dire che il cannabidiolo ha delle potenzialità per trattare il dolore neuropatico, l’infiammazione e tutti quei disturbi dell’umore spesso in comorbidità – replica Gobbi – ma per stabilirlo è necessaria ulteriore sperimentazione”.
Ansia e stress
Ridurre lo stress, rilassarsi e dormire meglio sono le ragioni principali per cui nel mondo ci si affida al cannabidiolo. È così per il 43-65% dei consumatori secondo una recente indagine. E non è un caso: la sua azione sui disturbi dell’ansia, del sonno e del panico è ben documentata, con vari studi, pochi però quelli placebo-controllati. A dare il principale contributo è Antonio Zuardi, professore di Neurologia e Psichiatria all’Università di San Paolo. Con una prima analisi, il suo gruppo ha confrontato diversi dosaggi di cbd su 40 individui senza disturbi d’ansia diagnosticati che a turno dovevano parlare in pubblico di fronte agli altri partecipanti. Dopo il breve discorso, gli scienziati hanno misurato frequenza cardiaca e pressione arteriosa, per poi valutare tramite standard internazionali i livelli di stanchezza e debolezza. “La dose intermedia di 300 mg ha migliorato notevolmente i sintomi soggettivi dell’ansia – conclude la pubblicazione – al contrario di quelle minima e massima (100 e 900 mg), dimostrate meno efficaci”. Nessun dosaggio ha però mostrato benefici sui parametri fisiologici. Risultati analoghi sono stati individuati per pazienti con disturbi d’ansia sociale.
L’insonnia
Per quanto riguarda invece l’azione sonnifera, uno studio su 72 pazienti adulti di una clinica psichiatrica di Denver ha sperimentato capsule di Cbd da 25 mg in aggiunta ai trattamenti standard per disturbi del sonno e ansia. Nelle conclusioni, il lead-author Scott Shannon del Dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado, scrive: “il 79% dei partecipanti ha visto ridurre l’ansia nel primo mese, e il 67% ha migliorato la qualità e i parametri del sonno”. Ma in letteratura esistono anche alcuni trial il cui obiettivo finale era dimostrare l’effetto tranquillante del cbd, che hanno però fallito nel loro scopo. Molti ricercatori stanno oggi esplorando la molecola come calmante dell’ansia legata a disturbi dello spettro autistico (ASD). Il professor Devinsky ha condotto un primo studio su 15 suoi pazienti (5 dei quali epilettici), con diagnosi da ASD. Secondo i risultati, il trattamento sarebbe in grado di alleviare aggressività, irritabilità e iperattività associata allo spettro. “I genitori dei bambini spesso chiedevano di continuare con il Cbd anche senza miglioramenti nell’epilessia – nota Devinsky – semplicemente perché dormivano meglio ed erano più calmi”.
Il cancro
Un’applicazione forse ‘più giovane’ del cannabidiolo, è quella in ambito oncologico. Premessa fondamentale: allo stato attuale non esistono studi clinici su larga scala che dimostrino i benefici del Cbd sul cancro. Nonostante ciò, da un lato il fitocannabinoide trova sempre più riscontro nelle terapie come cura palliativa, e dall’altro la medicina ne sta dimostrando – con vari test su animali e cellule umane – l’efficacia anti-tumorale come coadiuvante ai chemioterapici classici. In Italia Massimo Nabissi, professore e ricercatore presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Sanità Pubblica dell’Università di Camerino, è tra i maggiori esperti sulla combinazione tra chemioterapici e cannabinoidi e sui benefici che questi potrebbero avere, in particolare nel glioblastoma e mieloma. “Fino al 2019 gli studi erano piccoli e disegnati in maniera diversa (con dosaggi, posologie ed endpoints non omogenei, ndr) – commenta Nabissi – ma dall’anno scorso Australia e Nuova Zelanda hanno aperto un reclutamento per studi clinici larghi”. Una prima sperimentazione su pazienti con mieloma multiplo è cominciata da poco anche in Israele, proprio sulla base dei risultati incoraggianti tratti dal lavoro di Nabissi e colleghi.
Le sperimentazioni in corso
La ricerca insomma è in moto, ma la pratica clinica ha già fatto qualche (prudente) passo avanti. All’avanguardia nei trattamenti con Cbd e con cannabis terapeutica, sono l’Istituto Europeo di Oncologia, così come la Fondazione Umberto Veronesi, che lo prescrivono sia in fase precoce che avanzata, per alleviare vomito, nausea, inappetenza e dolore senza gli effetti indesiderati degli oppiacei. E non è tutto. “Evidenze preliminari – prosegue Nabissi – ci dicono che in combinazione con i chemioterapici, il Cbd non ha effetti negativi e anzi può esercitare un’azione amplificante della cura classica. Ciò è stato visto sia per il mieloma, che per i tumori al cervello, pancreas ed endometrio”. Alcune analisi hanno anche sondato l’azione di rallentamento della crescita del cancro. “In fase preclinica, sia a livello di cellule tumorali che in modelli animali, c’è forte evidenza che il Cbd, talvolta accoppiato al Thc, possa interagire negativamente sulla crescita dei tumori”, chiarisce Nabissi. In particolare sembra in grado di contrastare processi caratteristici della formazione, che vanno dall’angiogenesi, ovvero la crescita di nuovi vasi sanguigni dai tessuti circostanti, alla formazione di metastasi. Come? “Il meccanismo è ancora poco chiaro, ma si è visto che induce apoptosi (processo di morte cellulare programmata n.d.r.) nel tumore al cervello, così come necrosi nel mieloma”.
Contro dolore e nausea
Alcuni studi portati avanti da Sean McAllister del California Pacific Medical Center di San Francisco hanno dimostrato le stesse dinamiche nel carcinoma della mammella. La sperimentazione, che si è svolta con cellule in vitro, secondo McAllister “offrirebbe evidenze per un uso clinico futuro”. È corretto quindi sostenere che in ambito oncologico, il cannabidiolo abbia mostrato risultati soddisfacenti in fase preclinica e aiuti già oggi – in combinazione con altri fitocannabinoidi – ad alleviare dolore, insonnia, nausea o ansia, conseguenze del cancro e delle sue terapie. “Ma c’è ancora molto da studiare su dosaggi, meccanismi d’azione, formulazioni e modalità di somministrazione, per sfruttarne appieno le potenzialità”, conclude Nabissi.
Cannabis terapeutica: cinque cose da sapere sul Cbd
La dipendenza
La cannabis viene spesso descritta come porta d’ingresso verso l’abuso di sostanze più pericolose, ma ci sono evidenze preliminari che il cannabidiolo preso singolarmente abbia in realtà l’effetto opposto e aiuti a ridurre le probabilità di sviluppare dipendenze da cocaina e metanfetamine. Yasmin Hurd, direttrice dell’Addition Institute of Mount Sinai – tra i più importanti centri di trattamento delle dipendenze al mondo – ha cominciato a studiare il meccanismo con studi preclinici mirati. Dopo aver mostrato che le cavie murine con dipendenza da eroina cercano oppioidi con meno insistenza se trattate con Cbd, Hurd ha identificato la stessa dinamica nell’uomo. Con il suo team, ha messo a punto una ricerca su 42 consumatori abituali di eroina, con fino a tre mesi di astinenza. Il disegno dello studio è “duro”, ma ha prodotto risultati incoraggianti: i ricercatori hanno esposto i partecipanti a siringhe e altri oggetti per le iniezioni e video che mostravano assunzioni di eroina. “Sono stimoli che provocano forte carving (desiderio irrefrenabile della sostanza n.d.r.)”, spiega la neuroscienziata. Un fenomeno a cui si associano elevati livelli di cortisolo e frequenza cardiaca accelerata. “Rispetto al gruppo placebo, chi ha ricevuto Cbd ha ridotto significativamente il carving, così come gli indicatori fisiologici collegati”, conclude Hurd. L’effetto si protraeva fino a 7 giorni dalla somministrazione. Ma i benefici del cannabidiolo nell’ambito delle dipendenze mitigherebbero anche i rischi legati alla cannabis stessa e in particolare al suo componente psicotropo: il Thc. È dimostrato come – su individui predisposti, specie se adolescenti – il tetraidrocannabinolo induca disturbi psicotici; un’importante analisi del King’s College di Londra ha dimostrato che il Cbd agisce sul cervello in maniera opposta al Thc e ne allevia gli effetti psicotogenici.
Non è una panacea
La Scienza che sta dietro al cannabidiolo, come visto, esiste e in alcuni ambiti è assodata. Al di fuori di questi, la ricerca è ancora limitata e non ha certezze granitiche. Gli scienziati si sono chiesti se il fitocannabinoide fosse in grado di migliorare la vita ai malati di Parkinson, della malattia di Huntington, del morbo di Crohn e di vari altri disturbi. Per nessuna di queste condizioni sarebbe corretto oggi, sulla base delle evidenze, sostenere che il Cbd sia una valida cura. L’entusiasmo febbrile, che ha investito prima gli Stati Uniti per poi sbarcare in Europa, continua a presentarlo ai consumatori come la panacea di tutti i mali, balzando molto oltre ciò che oggi è scientificamente assodato. E così, il mercato del cannabidiolo ha superato i 2.8 miliardi di dollari nel 2019, ma lieviterà fino a 22-30 miliardi entro la metà di questo decennio secondo le stime più accreditate. Le aziende produttrici di e-cig, prodotti per la cura personale e alimentari cavalcano l’onda: preparati a base di Cbd sono disponibili ovunque. Ma a differenza del Cbd di grado farmacologico – che risponde a standard Gmp (good manufacturing product), viene purificato e poi certificato da enti regolatori come Aifa – gran parte di quello che si trova online o in negozi fisici è poco o per nulla controllato. E di scarsa qualità.
Occhio ai preparati
Nel 2017, Marcel Bonn-Miller ricercatore alla School of Medicine dell’Università della Pennsylvania ha analizzato gli estratti di cannabidiolo più acquistati. Solo il 31% recava sull’etichetta ciò che effettivamente conteneva, mentre il 21% era contaminato da concentrazioni di Thc ‘intossicanti’. Nelle preparazioni sono state trovate tracce di pesticidi, metalli pesanti e solventi tossici rilasciati dai processi di estrazione. Occhio a ciò che si acquista quindi, specie se lo si fa senza prescrizione medica. Ma soprattutto, attenzione a non farsi sedurre dalle promesse mirabolanti; deprecabili, perché danno false speranze ai malati, o nella migliore delle ipotesi a consumatori poco informati. Per capire davvero tutte le potenzialità del cannabidiolo, alla comunità scientifica serve ulteriore ricerca. Dati che spieghino completamente i meccanismi d’azione, i dosaggi, l’efficacia e la formulazione più adatta a seconda della patologia. Riscontri che secondo tutti gli esperti interpellati, potremo trarre solo da trial randomizzati controllati con placebo: considerati il “gold standard” della sperimentazione clinica, ma anche i più costosi e delicati nella progettazione. In mancanza di questi, i benefici del cbd non ancora dimostrati saranno ostaggio di esperienze personali ed effetti placebo, che poco hanno a che spartire con il metodo scientifico. “L’essere umano diventa incauto quando pensa di vedere un disegno – conclude Orrin Devinsky – se tutti si convincono di qualcosa senza avere dati, la chiamo ‘religione’. E io non vorrei che il cannabidiolo diventasse una sorta di religione per il consumatore medio”.
dall’introduzione della cannabis a uso medico in Italia, ma per molti pazienti le terapie sono spesso una chimera e non riescono ad avere quei farmaci che potrebbero alleviare dolore o contrastare i sintomi delle loro malattie. Il problema? La legge del 2006 viene disattesa. Quando le Regioni la applicano, lo fanno in modo disomogeneo. A volte la ignorano. Le cose possono cambiare da un ospedale all’altro, da una città all’altra. E quando la ricetta del dottore arriva, c’è il problema della reperibilità di queste sostanze per produzione insufficiente e scarse importazioni. Con problemi burocratici o personale sanitario ancora poco preparato.
Al presidente del Consiglio Mario Draghi l’Associazione Luca Coscioni e Forum Droghe, a nome delle oltre 400 persone che hanno digiunato per la cannabis, si sono rivolte chiedendo di convocare la conferenza nazionale sulle droghe, come previsto dall’articolo 15 del Testo Unico sugli stupefacenti. Con l’obiettivo di avviare la valutazione delle politiche più adeguate in materia e tutelare i pazienti come Walter De Benedetto.
Oltre a soffrire per l’artrite reumatoide si è trovato a combattere una battaglia legale per ottenere le terapie. Per contrastare i dolori si è fatto aiutare da un amico nella produzione domestica di piante. E si è visto coinvolto in un processo per coltivazione di sostanza stupefacente in concorso. Situazioni difficili che in questi mesi hanno visto la solidarietà di tantissime persone che hanno partecipato al “digiuno per la cannabis” per sensibilizzare le istituzioni sul tema.
Cannabis terapeutica, storia di una cura “impossibile”
Inoltre da poco l’Onu ha cancellato la cannabis dalle sostanze dannose. Sempre di più si parla del Cannabidiolo o Cbd come di una ‘molecola multitasking’ per trattare diverse patologie. Dall’epilessia ai balsami, dalla cura del dolore e dell’insonnia agli orsetti gommosi. Abbiamo provato a fare il punto sugli studi più recenti in materia. Storie di pazienti, di persone, che si intrecciano a una terapia che può aiutarli ad affrontare giornate complicate.
L’epilessia di Charlotte
E’ emblematica anche la storia di Charlotte, una bimba nata nel 2006 da una famiglia di Colorado Springs, negli Stati Uniti. La prima crisi epilettica arrivò a tre mesi. La diagnosi gelò i genitori Matt e Paige: sindrome di Dravet, una rara e violenta forma di epilessia, che si manifesta con crisi epilettiche, disturbi cognitivi e difficoltà motorie ed è farmaco-resistente. Vennero provate tutte le terapie convenzionali, poi i farmaci sperimentali e la dieta chetogenica, ma la malattia avanzava inesorabile. Tanto che Charlotte, dopo pochi anni, fu costretta ad alimentarsi con un sondino e muoversi in sedia a rotelle, fiaccata da oltre 300 crisi convulsive a settimana. I dottori suggerirono il coma indotto, per dare respiro al suo corpo indebolito. Fu nel 2011 che Paige e Matt Figi, sfiniti dalla lotta della figlia, vennero a sapere di un altro bimbo con la stessa patologia che sembrava beneficiare di un particolare composto della Cannabis e decisero di somministrarlo alla figlia. Ciò che osservarono fu eccezionale: le convulsioni scomparvero quasi completamente dopo trenta giorni. E nel giro di venti mesi, Charlotte non aveva più bisogno di gran parte degli altri farmaci antiepilettici: ricominciò a camminare, andare in bici e giocare con la sua sorella gemella Chase.
Il Cbd
L’estratto dalla Cannabis che secondo i genitori salvò la vita a Charlotte è il Cannabidiolo (o Cbd), uno degli oltre 100 cannabinoidi finora identificati ed estratti dalla pianta di Cannabis Sativa. A differenza del suo “cugino high” – il Delta-9-tetraidrocannabinolo (o Thc) – non è psicotropo e dal 2017 è considerato dall’Oms “sostanza non stupefacente adatta all’uso medico”. Se la storia della piccola Charlotte Figi ha oltrepassato i confini del Colorado è grazie a un documentario della Cnn pensato nel 2013 dal neurochirurgo Sanjay Gupta. Charlotte purtroppo non c’è più dall’aprile scorso, ma la sua esperienza ha portato molti malati a chiedere il pieno riconoscimento del cannabidiolo come trattamento, rivoluzionando di fatto l’intero panorama della cannabis medica.
A distanza di pochi anni, il fitocannabinoide ha conquistato una parte più ampia di consumatori (non solo coloro che l’assumono per necessità) ed è diventato un autentico trend-topic salutistico. Creme, integratori, infusi, e-cig, cristalli, shampoo, oli, orsetti gommosi: il mercato si è sbizzarrito presentando la molecola come un antidoto universale per ogni malanno. Ma si sa: i proclami del marketing e la realtà scientifica viaggiano su strade tanto parallele quanto destinate a non incontrarsi mai. Se sono state infatti dimostrate nel tempo l’azione ansiolitica, analgesica, antiepilettica o sonnifera del Cbd, prima di considerarlo alla stregua di un medicinale per trattare condizioni specifiche servono conferme che solo ricerca e sperimentazione possono dare.
L’epilessia resistente
Esistono prove millenarie che testimoniano l’uso terapeutico dei derivati della cannabis, ma i primi dati scientificamente rilevanti sul Cbd arrivano nella seconda metà del secolo scorso. Nel 1963 Raphael Mechoulam, un professore di chimica della Hebrew University di Gerusalemme, considerato il padre della ricerca moderna sulla cannabis medica, individuò la struttura molecolare del cannabidiolo. Pochi anni più tardi, nel 1978, il gruppo guidato da Mechoulam pubblicò un trial clinico che dimostrava per la prima volta l’effetto antiepilettico del Cbd. A poco più di quarant’anni dalle prime ricerche di Mechoulam, l’unico medicinale a base di Cbd approvato oggi – sia dall’europea Ema che dalla statunitense Fda – cura proprio l’epilessia: Epidiolex di GW Pharmaceuticals. O meglio, il farmaco mira a ridurre l’insorgenza delle convulsioni associate a due rare forme di epilessia farmaco-resistente che esordiscono in età infantile: la sindrome di Lennox-Gasteaut e quella di Dravet, la patologia che colpì Charlotte Figi.
L’epilessia è uno dei disturbi neurologici più diffusi al mondo con 70 milioni di malati, circa un terzo dei quali mostra resistenza alla terapia (principalmente sintomatica) con anticonvulsionanti. Epidiolex ha superato nel 2018 le tre fasi della sperimentazione clinica, forte dei trial del professor Orrin Devinsky, direttore del Comprehensive Epilepsy Center della New York University. Ricerche ispirate anche dalla battaglia di Charlotte – come lo stesso Devinsky ha più volte dichiarato – i cui risultati hanno dimostrato efficacia e sicurezza del cannabidiolo. Nel dettaglio, in un primo studio i soggetti trattati ogni giorno con dosi da 5 a 50 mg per kg di peso, riducevano del 36% gli episodi convulsivi, mentre in una successiva ricerca (a doppio-cieco controllato con placebo, in cui nessuno sa chi assume il placebo e chi il principio attivo), con 10-20 mg la frequenza calava fino al 42%.
“Sparivano le convulsioni”
“In alcuni bambini le convulsioni sono addirittura sparite del tutto”, sottolineava Devinsky dinanzi a risultati tanto eccellenti. Ma in quale modo il cannabidiolo riuscirebbe a placare l’epilessia farmaco-resistente? A spiegarlo è il professor Pasquale Striano, medico epilettologo e neurologo pediatra dell’Istituto Gianna Gaslini di Genova, tra i maggiori esperti italiani sulle encefalopatie epilettiche dell’età evolutiva e sugli effetti terapeutici del Cbd in quest’ambito. “Si tratta di una molecola che ha meccanismi d’azione non convenzionali rispetto alle cure standard – osserva Striano – il Cbd agisce su due recettori specifici: il GPR55, che se inibito ha effetti anticonvulsivi, e il TRPV1, recettore della capsaicina – ingrediente attivo del peperoncino rosso e potente disinfiammante – anch’esso coinvolto nella modulazione delle crisi epilettiche”. A ribadire l’azione antiepilettica del cannabidiolo, c’è un recente studio del gruppo guidato da Striano al Gaslini in cui, dopo un follow-up di 24 settimane, il 73% dei pazienti curati con cbd puro per via sublinguale riportava una significativa riduzione delle convulsioni, mentre il 19% addirittura azzerava gli episodi. Come si spiegano questi dati estremamente incoraggianti? “Il cannabidiolo somministrato per bocca, come nei trial Usa, ha una biodisponibilità dal 4 al 10% (vuol dire che oltre il 90% viene smaltito ndr), mentre per via sublinguale sale all’80-85%”, risponde Striano. E ciò permette dosaggi più generosi.
Sclerosi tuberosa complessa
Il primo farmaco a base di Cbd è stato approvato pochi mesi fa da Fda anche per il trattamento dell’epilessia associata alla sclerosi tuberosa complessa (Tsc), una malattia genetica che colpisce 1-2 milioni di persone al mondo e 1 su 6000 nuovi nati. Sintomo principale: le convulsioni, che si presentano nell’80% dei casi e quasi sempre nella prima infanzia. Sono numerose le prove cliniche a supporto della cura per la Tsc. Tra le principali c’è un trial controllato randomizzato messo a punto da Elizabeth Thiele, professoressa di Neurologia alla Harvard Medical School. Dei 224 pazienti trattati con Cbd (25-50 mg per kg di massa corporea al giorno), “il 48-49% ha ridotto significativamente gli episodi nelle 16 settimane di osservazione”, si legge nelle conclusioni.
Sclerosi multipla e cannabis terapeutica negata, la storia di Loredana
L’epilessia resistente è senza dubbio una delle applicazioni più concrete del cannabidiolo, ma ha solo vantaggi oppure ci sono limiti? “C’è un equivoco che va chiarito – avverte Striano – il Cbd non è il più efficace degli antiepilettici, e soprattutto bisogna combattere l’idea sbagliata che si tratti di un prodotto natural, ‘che fa meno male’. Si tratta al contrario di un farmaco con un alto profilo di sicurezza e tolleranza, che può essere prescritto da uno specialista epilettologo nei casi in cui il paziente abbia provato almeno due antiepilettici senza risultato”. Come è stato ribadito al congresso nazionale della Lega Italiana contro l’Epilessia (Lice), c’è evidenza che farmaci a base di cbd puro possano essere efficaci in forme di epilessia anche diverse da quelle legate alla Lennox-Gasteaut e alla Dravet. “Un discorso che potremmo estendere potenzialmente a tutte quelle malattie in cui c’è un’infiammazione cronica di basso livello come il disturbo del sonno, la sindrome metabolica o l’asma – aggiunge Striano – ma al momento l’indicazione di usarli è limitata alle patologie per cui sono stati approvati”.
La schizofrenia
Insieme all’epilessia, uno dei campi d’azione più interessanti del cannabidiolo, è quello dei disturbi psicotici, in particolare la schizofrenia e le psicosi schizofreniformi. La prima è un disturbo mentale caratterizzato dall’alterazione delle funzioni cognitive, comportamentali, comunicative e percettive. Colpisce 20 milioni di persone ed è trattata anche con psicoterapia. Già nel 1995, Mechoulam descrisse i miglioramenti dei sintomi di un paziente schizofrenico trattato con dosi elevate di Cbd.
Allucinazioni, deliri, manie e pensiero disorganizzato sono i sintomi più comuni detti ‘positivi’, ovvero non presenti in individui sani; quelli “negativi” al contrario, includono apatia, deficit dell’attenzione e compromissione dei rapporti interpersonali. Dopo gli studi di Mechoulam, si sono susseguite varie pubblicazioni, quasi tutte case-report (analisi su singoli o pochi casi ndr), mentre sono pochissimi gli studi con placebo, che però confermerebbero una certa azione antipsicotica del cannabidiolo. Due i più rilevanti: il primo, in cui il team di ricerca diretto da Markus Leweke, del Central Institute of Mental Health di Mannheim, ha confrontato lungo 4 settimane gli effetti del Cbd puro con quelli dell’Amisulpride, un potente antipsicotico. “Entrambi i farmaci alleviavano i sintomi – afferma Leweke – ma il Cbd ha mostrato un profilo di tolleranza migliore, minor perdita di peso e sintomi come distonia, tremori e rigidità”.
Come antipsicotico
Con questa pubblicazione, definita dalla comunità scientifica ‘rivoluzionaria”, Leweke e colleghi hanno offerto anche una prima spiegazione del meccanismo d’azione del Cbd come antipsicotico: i pazienti trattati mostravano livelli più elevati di anandamide, un endocannabinoide prodotto dal nostro organismo, che in effetti proteggerebbe dalle psicosi. Il secondo vasto studio messo a punto dal professor Philip McGuire dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze del King’s College di Londra, ha testato per la prima volta il fitocannabinoide come coadiuvante delle terapie standard con antipsicotici. “Dopo sei settimane di follow-up – scrivono i ricercatori – il gruppo Cbd ha diminuito i sintomi positivi sulla base della scala Panss (Positive and Negative Syndrome Scale, la scala di valutazione che ne misura la severità, ndr)”. Nonostante i dati incoraggianti di Leweke e McGuire, la comunità scientifica non è ancora convinta fino in fondo dei benefici Cbd contro le psicosi.
Uno studio placebo-controllato del 2018 seguì lungo sei settimane pazienti trattati con antipsicotici convenzionali. Il gruppo curato con cannabidiolo in aggiunta (600 mg/giorno) non mostrava miglioramenti significativi secondo la scala Panss o sulla performance cognitiva. L’opinione degli esperti è chiara: da un lato sono ancora pochi i trial controllati, e dall’altro le dosi impiegate negli studi clinici e preclinici sono troppo diverse tra loro e spesso ‘sporcate’ da tracce di Thc. In altre parole, le evidenze sull’efficacia del Cbd in campo psichiatrico sono ad oggi incomplete.
Il dolore neuropatico e l’infiammazione
In cima alla lista degli impieghi terapeutici del cannabidiolo (e della cannabis medica in generale) c’è senza dubbio il trattamento del dolore. Specie il dolore neuropatico, generato da un danno o una patologia del sistema nervoso centrale o periferico, che colpisce tra il 7 e il 10% della popolazione mondiale. Responsabili principali sono neuropatie come quella diabetica, quella periferica causata da trattamenti come radio o chemioterapia, il dolore post-ictus oppure la sclerosi multipla. Le terapie farmacologiche attuali riescono a garantire solo alla metà dei pazienti una riduzione significativa del dolore.
Se l’azione analgesica del Cbd non è ancora stata riconosciuta per intero, dopo anni di esperienza clinica, la cannabis medica è senz’altro un’arma in più a disposizione dei terapisti del dolore. Ma come lo allevia? “Il Cbd agisce su recettori che mediano la trasmissione del dolore e l’infiammazione – spiega Gabriella Gobbi, professoressa di Psichiatria alla McGill University di Montreal – così come su almeno uno dei recettori della serotonina, il 5-HT1A”.
Contro la depressione
Con il suo gruppo del Brain Repair and Integrative Neuroscience, Gobbi ha dimostrato che il cannabidiolo esercita sul cervello un effetto fisiologico del tutto simile a quello degli inibitori selettivi del reuptake di serotonina (SSRI), usati per trattare la depressione.
“A pochi giorni dall’assunzione, si mette in moto la desensibilizzazione del 5-HT1A e il conseguente aumento della trasmissione serotoninergica, proprio come accade con gli SSRI”. Ma se non ci sono ancora evidenze soddisfacenti a supporto di un vero e proprio effetto antidepressivo del cbd, il team coordinato da Gobbi ha notato in test preclinici che piccole dosi sarebbero in grado di ridurre il dolore neuropatico, così come l’ansia. Il Cbd offrirebbe così un trattamento alternativo ad oppiodi e Thc; “una soluzione non certo egualmente efficace – precisa Gobbi – ma senza quegli effetti collaterali”. Insomma, i riscontri preclinici su dolore e infiammazione cronica sono incoraggianti, anche se sono ancora pochi i trial clinici placebo-controllati.
Un’ultima analisi su malati di artrosi ha testato un gel al cannabidiolo. “Chi l’ha ricevuto ha ridotto il dolore di più rispetto al gruppo placebo”, conclude la pubblicazione. In definitiva, le evidenze sembrerebbero sostenere l’uso del fitocannabinoide come attenuante del dolore, ma fino a che punto? “Non sbaglieremmo a dire che il cannabidiolo ha delle potenzialità per trattare il dolore neuropatico, l’infiammazione e tutti quei disturbi dell’umore spesso in comorbidità – replica Gobbi – ma per stabilirlo è necessaria ulteriore sperimentazione”.
Ansia e stress
Ridurre lo stress, rilassarsi e dormire meglio sono le ragioni principali per cui nel mondo ci si affida al cannabidiolo. È così per il 43-65% dei consumatori secondo una recente indagine. E non è un caso: la sua azione sui disturbi dell’ansia, del sonno e del panico è ben documentata, con vari studi, pochi però quelli placebo-controllati. A dare il principale contributo è Antonio Zuardi, professore di Neurologia e Psichiatria all’Università di San Paolo. Con una prima analisi, il suo gruppo ha confrontato diversi dosaggi di cbd su 40 individui senza disturbi d’ansia diagnosticati che a turno dovevano parlare in pubblico di fronte agli altri partecipanti. Dopo il breve discorso, gli scienziati hanno misurato frequenza cardiaca e pressione arteriosa, per poi valutare tramite standard internazionali i livelli di stanchezza e debolezza. “La dose intermedia di 300 mg ha migliorato notevolmente i sintomi soggettivi dell’ansia – conclude la pubblicazione – al contrario di quelle minima e massima (100 e 900 mg), dimostrate meno efficaci”. Nessun dosaggio ha però mostrato benefici sui parametri fisiologici. Risultati analoghi sono stati individuati per pazienti con disturbi d’ansia sociale.
L’insonnia
Per quanto riguarda invece l’azione sonnifera, uno studio su 72 pazienti adulti di una clinica psichiatrica di Denver ha sperimentato capsule di Cbd da 25 mg in aggiunta ai trattamenti standard per disturbi del sonno e ansia. Nelle conclusioni, il lead-author Scott Shannon del Dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado, scrive: “il 79% dei partecipanti ha visto ridurre l’ansia nel primo mese, e il 67% ha migliorato la qualità e i parametri del sonno”. Ma in letteratura esistono anche alcuni trial il cui obiettivo finale era dimostrare l’effetto tranquillante del cbd, che hanno però fallito nel loro scopo. Molti ricercatori stanno oggi esplorando la molecola come calmante dell’ansia legata a disturbi dello spettro autistico (ASD). Il professor Devinsky ha condotto un primo studio su 15 suoi pazienti (5 dei quali epilettici), con diagnosi da ASD. Secondo i risultati, il trattamento sarebbe in grado di alleviare aggressività, irritabilità e iperattività associata allo spettro. “I genitori dei bambini spesso chiedevano di continuare con il Cbd anche senza miglioramenti nell’epilessia – nota Devinsky – semplicemente perché dormivano meglio ed erano più calmi”.
Il cancro
Un’applicazione forse ‘più giovane’ del cannabidiolo, è quella in ambito oncologico. Premessa fondamentale: allo stato attuale non esistono studi clinici su larga scala che dimostrino i benefici del Cbd sul cancro. Nonostante ciò, da un lato il fitocannabinoide trova sempre più riscontro nelle terapie come cura palliativa, e dall’altro la medicina ne sta dimostrando – con vari test su animali e cellule umane – l’efficacia anti-tumorale come coadiuvante ai chemioterapici classici. In Italia Massimo Nabissi, professore e ricercatore presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Sanità Pubblica dell’Università di Camerino, è tra i maggiori esperti sulla combinazione tra chemioterapici e cannabinoidi e sui benefici che questi potrebbero avere, in particolare nel glioblastoma e mieloma. “Fino al 2019 gli studi erano piccoli e disegnati in maniera diversa (con dosaggi, posologie ed endpoints non omogenei, ndr) – commenta Nabissi – ma dall’anno scorso Australia e Nuova Zelanda hanno aperto un reclutamento per studi clinici larghi”. Una prima sperimentazione su pazienti con mieloma multiplo è cominciata da poco anche in Israele, proprio sulla base dei risultati incoraggianti tratti dal lavoro di Nabissi e colleghi.
Le sperimentazioni in corso
La ricerca insomma è in moto, ma la pratica clinica ha già fatto qualche (prudente) passo avanti. All’avanguardia nei trattamenti con Cbd e con cannabis terapeutica, sono l’Istituto Europeo di Oncologia, così come la Fondazione Umberto Veronesi, che lo prescrivono sia in fase precoce che avanzata, per alleviare vomito, nausea, inappetenza e dolore senza gli effetti indesiderati degli oppiacei. E non è tutto. “Evidenze preliminari – prosegue Nabissi – ci dicono che in combinazione con i chemioterapici, il Cbd non ha effetti negativi e anzi può esercitare un’azione amplificante della cura classica. Ciò è stato visto sia per il mieloma, che per i tumori al cervello, pancreas ed endometrio”. Alcune analisi hanno anche sondato l’azione di rallentamento della crescita del cancro. “In fase preclinica, sia a livello di cellule tumorali che in modelli animali, c’è forte evidenza che il Cbd, talvolta accoppiato al Thc, possa interagire negativamente sulla crescita dei tumori”, chiarisce Nabissi. In particolare sembra in grado di contrastare processi caratteristici della formazione, che vanno dall’angiogenesi, ovvero la crescita di nuovi vasi sanguigni dai tessuti circostanti, alla formazione di metastasi. Come? “Il meccanismo è ancora poco chiaro, ma si è visto che induce apoptosi (processo di morte cellulare programmata n.d.r.) nel tumore al cervello, così come necrosi nel mieloma”.
Contro dolore e nausea
Alcuni studi portati avanti da Sean McAllister del California Pacific Medical Center di San Francisco hanno dimostrato le stesse dinamiche nel carcinoma della mammella. La sperimentazione, che si è svolta con cellule in vitro, secondo McAllister “offrirebbe evidenze per un uso clinico futuro”. È corretto quindi sostenere che in ambito oncologico, il cannabidiolo abbia mostrato risultati soddisfacenti in fase preclinica e aiuti già oggi – in combinazione con altri fitocannabinoidi – ad alleviare dolore, insonnia, nausea o ansia, conseguenze del cancro e delle sue terapie. “Ma c’è ancora molto da studiare su dosaggi, meccanismi d’azione, formulazioni e modalità di somministrazione, per sfruttarne appieno le potenzialità”, conclude Nabissi.
Cannabis terapeutica: cinque cose da sapere sul Cbd
La dipendenza
La cannabis viene spesso descritta come porta d’ingresso verso l’abuso di sostanze più pericolose, ma ci sono evidenze preliminari che il cannabidiolo preso singolarmente abbia in realtà l’effetto opposto e aiuti a ridurre le probabilità di sviluppare dipendenze da cocaina e metanfetamine. Yasmin Hurd, direttrice dell’Addition Institute of Mount Sinai – tra i più importanti centri di trattamento delle dipendenze al mondo – ha cominciato a studiare il meccanismo con studi preclinici mirati. Dopo aver mostrato che le cavie murine con dipendenza da eroina cercano oppioidi con meno insistenza se trattate con Cbd, Hurd ha identificato la stessa dinamica nell’uomo. Con il suo team, ha messo a punto una ricerca su 42 consumatori abituali di eroina, con fino a tre mesi di astinenza. Il disegno dello studio è “duro”, ma ha prodotto risultati incoraggianti: i ricercatori hanno esposto i partecipanti a siringhe e altri oggetti per le iniezioni e video che mostravano assunzioni di eroina. “Sono stimoli che provocano forte carving (desiderio irrefrenabile della sostanza n.d.r.)”, spiega la neuroscienziata. Un fenomeno a cui si associano elevati livelli di cortisolo e frequenza cardiaca accelerata. “Rispetto al gruppo placebo, chi ha ricevuto Cbd ha ridotto significativamente il carving, così come gli indicatori fisiologici collegati”, conclude Hurd. L’effetto si protraeva fino a 7 giorni dalla somministrazione. Ma i benefici del cannabidiolo nell’ambito delle dipendenze mitigherebbero anche i rischi legati alla cannabis stessa e in particolare al suo componente psicotropo: il Thc. È dimostrato come – su individui predisposti, specie se adolescenti – il tetraidrocannabinolo induca disturbi psicotici; un’importante analisi del King’s College di Londra ha dimostrato che il Cbd agisce sul cervello in maniera opposta al Thc e ne allevia gli effetti psicotogenici.
Non è una panacea
La Scienza che sta dietro al cannabidiolo, come visto, esiste e in alcuni ambiti è assodata. Al di fuori di questi, la ricerca è ancora limitata e non ha certezze granitiche. Gli scienziati si sono chiesti se il fitocannabinoide fosse in grado di migliorare la vita ai malati di Parkinson, della malattia di Huntington, del morbo di Crohn e di vari altri disturbi. Per nessuna di queste condizioni sarebbe corretto oggi, sulla base delle evidenze, sostenere che il Cbd sia una valida cura. L’entusiasmo febbrile, che ha investito prima gli Stati Uniti per poi sbarcare in Europa, continua a presentarlo ai consumatori come la panacea di tutti i mali, balzando molto oltre ciò che oggi è scientificamente assodato. E così, il mercato del cannabidiolo ha superato i 2.8 miliardi di dollari nel 2019, ma lieviterà fino a 22-30 miliardi entro la metà di questo decennio secondo le stime più accreditate. Le aziende produttrici di e-cig, prodotti per la cura personale e alimentari cavalcano l’onda: preparati a base di Cbd sono disponibili ovunque. Ma a differenza del Cbd di grado farmacologico – che risponde a standard Gmp (good manufacturing product), viene purificato e poi certificato da enti regolatori come Aifa – gran parte di quello che si trova online o in negozi fisici è poco o per nulla controllato. E di scarsa qualità.
Occhio ai preparati
Nel 2017, Marcel Bonn-Miller ricercatore alla School of Medicine dell’Università della Pennsylvania ha analizzato gli estratti di cannabidiolo più acquistati. Solo il 31% recava sull’etichetta ciò che effettivamente conteneva, mentre il 21% era contaminato da concentrazioni di Thc ‘intossicanti’. Nelle preparazioni sono state trovate tracce di pesticidi, metalli pesanti e solventi tossici rilasciati dai processi di estrazione. Occhio a ciò che si acquista quindi, specie se lo si fa senza prescrizione medica. Ma soprattutto, attenzione a non farsi sedurre dalle promesse mirabolanti; deprecabili, perché danno false speranze ai malati, o nella migliore delle ipotesi a consumatori poco informati. Per capire davvero tutte le potenzialità del cannabidiolo, alla comunità scientifica serve ulteriore ricerca. Dati che spieghino completamente i meccanismi d’azione, i dosaggi, l’efficacia e la formulazione più adatta a seconda della patologia. Riscontri che secondo tutti gli esperti interpellati, potremo trarre solo da trial randomizzati controllati con placebo: considerati il “gold standard” della sperimentazione clinica, ma anche i più costosi e delicati nella progettazione. In mancanza di questi, i benefici del cbd non ancora dimostrati saranno ostaggio di esperienze personali ed effetti placebo, che poco hanno a che spartire con il metodo scientifico. “L’essere umano diventa incauto quando pensa di vedere un disegno – conclude Orrin Devinsky – se tutti si convincono di qualcosa senza avere dati, la chiamo ‘religione’. E io non vorrei che il cannabidiolo diventasse una sorta di religione per il consumatore medio”.